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(WSI) – L´economia più dinamica del mondo e la Borsa più depressa: la Cina riesce ad avere i due record insieme. Da quattro anni detiene il primato mondiale con una crescita annua del Pil sempre superiore al 9%. Nello stesso periodo le due Borse locali – Shanghai per le grandi imprese e Shenzhen per le piccole – hanno chiuso in perdita. Questa settimana la frana ha raggiunto nuovi abissi, con l´indice di Shanghai ai minimi da sei anni, ridisceso ai livelli del maggio 1999.
La lunga crisi della Borsa cinese, quasi speculare al boom ininterrotto dell´economia reale, è diventata un problema di massa: il paese ha uno dei più alti risparmi del pianeta e una parte della liquidità del ceto medio è investita in azioni. Il primo ministro Wen Jiabao ha rivelato di aver commissionato un sondaggio su Internet attraverso Xinhuanet. com e la crisi dei mercati è arrivata al primo posto fra le preoccupazioni.
Gli economisti cinesi indicano varie cause per il calo dei listini negli ultimi mesi. La politica creditizia è diventata meno espansiva, perché il governo sta cercando di sgonfiare la bolla speculativa dei settori più surriscaldati come il mercato immobiliare. Le banche obbediscono. Questa settimana sedici banche di Shanghai (la città dove i prezzi del metro quadro hanno raggiunto punte estreme) hanno concordato un giro di vite sui mutui, escludendo dai prestiti chi rivende gli appartamenti entro un anno dall´acquisto. E´ una conferma di quanto sia sfrenata la speculazione in questo settore; ma è anche un segnale che il sistema creditizio stringe i freni, e anche la Borsa ne risente.
Un´altra causa contingente dei ribassi è l´imminente arrivo di un´ondata di nuove privatizzazioni – in particolare nel settore bancario – che finiranno col drenare liquidità penalizzando le altre società quotate; le quotazioni anticipano l´evento e si aggiustano al ribasso.
Queste cause congiunturali non spiegano però un declino che ha quattro anni di anzianità alle spalle, ed è iniziato molto prima che il governo prendesse misure contro le «bolle». Il comportamento deludente della Borsa è tanto più sorprendente, se confrontato con l´exploit messo a segno all´epoca della «crisi asiatica», quando il mercato cinese fu un rifugio di stabilità in mezzo al panico generale. Nell´ottobre 1997, mentre crollavano come birilli valute e Borse asiatiche (prima la Thailandia, poi Malaysia, Singapore, Indonesia, Corea del Sud), il listino azionario di Shanghai continuava a salire. Lo sosteneva l´inconvertibilità del renminbi, solidamente agganciato al dollaro e difeso con determinazione dalla banca centrale di Pechino. In quel frangente fu stridente il contrasto fra Shanghai e Hong Kong.
La piazza finanziaria dell´isola, ben più sviluppata e sofisticata, fu contagiata dal crollo generale e perse il 40% mentre quella di Shanghai guadagnava il 6%. Nel mezzo di quella crisi sembrò che le autorità cinesi potessero vincere una sfida ambiziosa: togliere a Hong Kong il suo ruolo finanziario e «riportarlo» a Shanghai che era stata la vera capitale economica fino all´avvento del comunismo.
La chiave per spiegare questi quattro anni di declino, sta proprio nelle misure prese – o non prese – dal governo nell´ottica del sorpasso Shanghai-Hong Kong. Le autorità di Pechino inizialmente hanno scelto di allargare le dimensioni della Borsa nazionale con un massiccio afflusso di imprese pubbliche.
Queste ultime però non sono la parte più efficiente dell´economia cinese. Il settore statale continua ad annoverare grandi aziende decotte, «dinosauri» dell´era maoista che vivono di sussidi. Quotandosi in Borsa queste società non hanno favorito il decollo di Shanghai. Anzi, molti manager pubblici con l´avallo del governo hanno usato la Borsa come sostituto dei fondi statali. Si sono fatti sussidiare dal risparmiatore anziché dal Tesoro.
Intanto molti imprenditori giovani e competitivi prendevano la strada di mercati alternativi: la maggior parte andavano a quotarsi a Hong Kong, i più arditi al Nasdaq o al New York Stock Exchange. Anche perché nel frattempo il governo di Pechino non ha fatto le riforme più importanti: leggi a tutela degli azionisti di minoranza, regole di trasparenza, sanzioni contro il falso in bilancio, costruzione di autorità di vigilanza forti, di tribunali competenti sui reati finanziari. Un ritardo delle riforme forse non casuale né innocente: gli intrecci di affari e i conflitti d´interessi tra la nomenklatura comunista e la nuova borghesia capitalistica cinese sono noti.
Le conseguenze di questa inazione sono scoppiate negli ultimi mesi: la Cina è entrata nella sua «stagione-Enron», con una miriade di scandali che hanno messo a nudo le carenze strutturali delle sue Borse. I due casi più gravi hanno colpito due aziende di Stato in altrettanti settori chiave dell´economia. La China Aviation Oil – una società di trading incaricata di gestire gli approvvigionamenti petroliferi per le compagnie aeree nazionali – è stata travolta da un buco di 550 milioni di dollari, persi in speculazioni sui derivati, aggravato da insider trading perché il management ha raccolto un aumento di capitale nascondendo tutto agli azionisti.
Il fatto che questa società fosse quotata a Singapore non cambia la percezione dei mercati: gli ordini venivano da Pechino. L´altro scandalo ha colpito il 16 marzo la China Construction Bank, che ha dovuto licenziare il suo presidente per aver intascato tangenti. Ora il premier Wen Jiabao ha messo le riforme dei mercati tra le priorità del suo governo.
Forse un po´ tardi per rassicurare i risparmiatori cinesi. Chi non ha affatto bisogno di rassicurazioni, paradossalmente, sono gli investitori più sofisticati: gli stranieri. Il gruppo olandese Ing ha appena comprato il 20% della Bank of Beijing, incurante degli scandali. Per le multinazionali che vogliono essere sul mercato più dinamico del mondo, le quotazioni di Borsa non sono un criterio decisivo.
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