(intervista al ministro per gli affari europei Egemen Bagis, in edicola oggi con Espansione insieme a Il Giornale)
New York – Nel governo attuale, il terzo monocolore di fila di Recep Tayyip Erdogan, è alla guida del neonato Ministero per gli affari europei. Segno eloquente di volontà europeista del governo di Ankara. Stiamo parlando del ministro turco Egemen Bagis.
Per la Turchia, l’ingresso nell’Ue è il principale obiettivo strategico. Per centrarlo, spinge sull’acceleratore delle riforme che l’Europa le chiede per l’adesione ai 27. Mette in campo sforzi di ammodernamento in ampi settori della burocrazia, vara progetti di partenariato e iniziative per spiegare cos’è l’Europa ai suoi cittadini. Al di là delle battute, il governo turco non ha nessuna intenzione d’interrompere i negoziati di adesione con la Commissione europea iniziati nel 2005, che proseguiranno come previsto anche durante il semestre cipriota, altro che Disneyland.
Tuttavia, qualche problema ci sarà: non avendo rapporti diplomatici con la Repubblica di Cipro, Ankara diserterà gli appuntamenti estesi ai paesi candidati che Nicosia metterà in calendario: appuntamenti di natura per lo più cerimoniale, senza rilevanza politica o decisionale.
«Un problema solo di etichetta», sostiene il ministro. Che no, non andrà in vacanza e continuerà a viaggiare per lavoro tra Ankara e Bruxelles, con frequenti tappe nelle capitali europee e nelle 81 province della Turchia. Con la doppia bandiera, turca ed europea, sempre all’occhiello.
Tra un viaggio e l’altro, Bagis ha trovato il tempo per illustrare a Espansione il suo punto di vista sulle cause e le conseguenze della crisi politica ed economica dell’Europa comunitaria, per offrire qualche consiglio su come uscirne.
«La crisi dell’euro è stata tutt’altro che una sorpresa», dice.
Considera l’Unione monetaria europea un progetto strutturalmente deficitario sin dall’inizio, per la contraddizione tra la politica monetaria comune gestita dalla Banca centrale di Francoforte e la politica fiscale lasciata ai singoli stati, per di più in assenza di meccanismi sanzionatori certi nei confronti di chi viola le regole del patto di stabilità.
«Alcuni governi ne hanno approfittato. Hanno gestito in modo pessimo le loro politiche economiche e le loro finanze pubbliche per oltre un decennio. Hanno vissuto oltre i loro mezzi, hanno lasciato che gli squilibri macroeconomici raggiungessero livelli insostenibili. Ma quel che è veramente drammatico», continua il ministro, «è che la crisi economica si è trasformata in crisi politica: i governi eletti di Grecia e Italia sono stati costretti a dare le dimissioni e sono stati rimpiazzati da governi tecnocratici».
Bagis si chiede: «Ma l’Unione europea è forse disposta a considerare legittimi i deficit democratici nella lotta contro i deficit economici?». La sua risposta sarebbe decisamente negativa. «Perché il solo strumento legittimo ed efficace, una vera e propria regola aurea per superare una crisi economica, è una democrazia più forte».
E spiega il boom economico della Turchia negli ultimi dieci anni: il Pil è salito dell’8% anche nel 2011 proprio come frutto delle riforme in chiave democratica dell’Akp, che hanno assicurato stabilità e fiducia, «Le due parole magiche» per salvare l’Europa.
Neanche il declassamento della Francia (cioè la perdita della tripla A) è per Bagis una sorpresa, ma la conseguenza diretta di squilibri strutturali determinati da «risposte inadeguate, ritardate alla crisi» a livello sia nazionale, sia comunitario.
Invita tuttavia a non concentrarsi sui problemi dei singoli Stati membri (della Francia, come della Grecia o dell’Italia) e a individuare vie d’uscita collettive. Anche se, a dire il vero, poi ammette esplicitamente che è la Germania l’attore determinante del sistema, le cui scelte, in un rapporto sempre più sbilanciato con gli altri membri, segneranno l’uscita dalla crisi o il fallimento del progetto europeo.
Positivo per ora il giudizio sulla Germania
«Angela Merkel ha insistito su misure di austerità per contrastare i problemi di debito e ha delineato un’unione fiscale che si appoggia su norme più rigide e sanzioni automatiche».
Ankara, insomma, vorrebbe far parte di un’Europa più solida e meglio organizzata, con regole chiare e rispettate da tutti; ma il possibile ingresso nell’euro è un’eventualità che il ministro preferisce non esaminare.
«Si vedrà in futuro, solo quando l’avvicinamento negoziale a Bruxelles sarà in via di completamento».
Auspica comunque un ancora più pronunciato attivismo da parte di Berlino, ma ritiene indispensabile il coinvolgimento di “nuove potenze” per aiutare la Germania a tirar fuori l’Ue dalla crisi: «E oggi è proprio la Turchia», propone con orgoglio, «il paese più adatto e affidabile in Europa per ricoprire questo ruolo».
Immigrazione, Islam e stragi
C’è però un’altra crisi che incombe sul vecchio continente: quella dei rapporti di civile convivenza con gli immigrati musulmani, ormai 25 milioni e per la maggior parte cittadini europei.
«Penso che l’odio irrazionale verso l’Islam e i musulmani», sottolinea Bagis in tono accorato, «rappresenti una minaccia per la stessa filosofia fondante dell’Unione europea; la violenza retorica ha superato i livelli di guardia, in ogni aspetto della vita quotidiana i musulmani in Europa possono essere oggetto di discriminazioni».
L’11 settembre è stato per il ministro un vero spartiacque, perché ha creato nell’opinione pubblica occidentale una malsana associazione tra Islam (che sigifica “pace”, in arabo) e terrorismo, nonostante i loro ripetuti consigli agli “amici occidentali” e ai mezzi di comunicazione internazionali – consigli suoi personali e delle autorità turche, con in testa il premier Erdogan – di combatterla sin dall’inizio.
«Ciò che oggi è ancor più allarmante», continua, «è che le posizioni marginali dei partiti di estrema destra, che trovano terreno fertile a causa delle difficoltà economiche di molti, stanno entrando nel mainstream; solo per qualche voto in più, i leader populisti, privi di una visione autenticamente politica, fanno dichiarazioni che vengono applaudite dagli estremisti».
Non è solo di retorica, ci sono anche conseguenze pratiche: come il “triste evento” di Oslo, 77 vittime accusate di essere “tolleranti” nei confronti della religione islamica: un evento-simbolo di un sistema di pensiero pericolosissimo, che esacerbato dalla crisi economica potrebbe produrre azioni ancora più gravi.
Una volta di più, la Turchia viene proposta da Egemen Bagis come modello: «La chiave per il futuro di un’Europa unita nella diversità», dice, «perché la coesistenza pacifica e la tolleranza hanno dominato in Anatolia per secoli ed è di questa lezione che l’Europa ha bisogno».
Il che è vero, almeno fino a un certo punto della storia ottomana. Troviamo esempi di tolleranza evidenti, come la sinagoga, la chiesa cristiana armena e quella ortodossa costruite fianco a fianco nel villaggio sul Bosforo di Kuzguncuk. Ma l’idea della Turchia come modello di coesistenza pacifica e “unione nella diversità” è pur sempre screditata dai successivi massacri degli armeni e di altre popolazioni cristiane nel 1917-1922 – per molti storici un vero e proprio genocidio, anche se Bagis ovviamente non è d’accordo – e dalla secolare tensione col popolo curdo: come sempre, la realtà è più complessa di uno slogan.
Bagis si dispiace perché, «a causa dello stallo nel processo di adesione, la Turchia non è nelle condizioni di contribuire in modo incisivo a combattere le crisi di cui è preda l’Unione europea».
E anzi trova offensivo che il suo paese, candidato a entrare nella Ue (a cui è peraltro legata in unione doganale dal 1996), venga ancora considerato un outsider, un estraneo, anche nella politica dei visti.
«La Turchia è il solo paese candidato soggetto a un regime dei visti penalizzante e discriminatorio, in violazione degli autorevoli orientamenti della Corte europea di giustizia sul diritto dei cittadini turchi di viaggiare senza visto».
Come più volte auspicato dai governi italiani, da ultimo dal ministro Terzi, l’abolizione dei visti per entrare nello spazio comunitario sarebbe invece un gesto opportuno da parte della Ue per evitare che la Turchia si sganci dal progetto europeo; anzi, un modo per incoraggiarla a farne sempre più attivamente parte. Ne ha i requisiti, ne ha ancora l’entusiasmo.
Copyright © Espansione. All rights reserved