NEW YORK (WSI) – Il presidente Donald Trump difende a spada tratta i suoi dazi e questo nonostante i segnali di difficoltà dei mercati globali, penalizzati da un inizio deludente nella seconda metà dell’anno.
Numerose grandi case automobilistiche come General Motors e Volvo hanno avvertito che saranno costrette a ridurre costi e tagliare posti di lavoro se i dazi entrano in vigore. Ma Trump non demorde e nel corso di un incontro con il Primo ministro olandese, Mark Rutte, ha difeso le sue posizioni controverse sulle tariffe doganali e sul commercio, e puntando il dito contro l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) che, a suo dire, avrebbe maltrattato gli Stati Uniti.
“Spero che cambino il loro modo di procedere. Ci trattano molto male da molti, molti anni ed è per questo che ci siamo trovati in una situazione di grande svantaggio con l’OMC. Non stiamo pianificando niente ora, ma se non ci trattano correttamente faremo qualcosa”.
A prendere in parte le difese di Trump sono anche diversi commentatori di mercato, gestori e consulenti finanziari. Se per Pietro Calì, esperto consulente di Copernico SIM intervenuto nell’ultima puntata della trasmissione di Wall Street Italia Hashtag, è vero che gli Stati Uniti sono vittime di politiche commerciali sleali, per Roberto Rossignoli, Portfolio Manager di Moneyfarm non è “oltraggioso pensare che la Casa Bianca si adoperi per correggere alcuni squilibri macroeconomici, soprattutto riguardo alcune delle distorsioni create dalla globalizzazione che si sono abbattute in maniera sproporzionata, tra gli altri, sul ceto medio manifatturiero dei Paesi occidentali”.
Le minacce di ritorsione dell’UE a Trump
Certo è che nonostante l’arringa difensiva di Trump e le giustificazioni dell’offensiva, non si può nascondere la testa sotto la sabbia e negare l’evidenza: ossia che la guerra commerciale intrapresa dalla Casa Bianca contro l’Unione europea costa sia ai produttori negli Stati Uniti che a quelli dell’area dell’euro. Lo scrive nero su bianco anche la Commissione Ue in un documento indirizzato al Dipartimento del Commercio americano.
“I dazi americani sulle importazioni di automobili europee danneggiano il commercio, la crescita e l’occupazione negli Stati Uniti, con un impatto negativo di 13-14 miliardi di dollari sul Pil, e inquinano i legami con gli alleati”.
Citando proprio questo documento, il Financial Times quantifica che se gli Usa faranno scattare dazi del 25% sulle auto europee, potrebbe scattare da parte Ue una rappresaglia commerciale del volume di circa 300 miliardi di dollari. Per gli investitori il problema è evidente.
Goldman Sachs ha avvertito che la seconda metà del 2018 sarebbe stata difficile per gli investitori in quanto alle prese proprio con l’aumento delle tariffe e dei tassi di interesse, mentre in una nota JP Morgan ha avvertito che una guerra commerciale a pieno ritmo aprirebbe un buco nella crescita economica globale a causa del ridotto volume degli scambi, delle interruzioni della catena di approvvigionamento e della perdita di fiducia.
Cina ricorrere alle armi pesanti: guerra valutaria non solo commerciale
Il calo mensile più pesante di sempre dello yuan rispetto al dollaro ha alimentato i timori che Pechino si stia preparando a fare ricorso alle armi pesanti per contrastare gli Stati Uniti nella guerra commerciale a tutto campo in corso tra le due prime potenze economiche al mondo. In un’escalation della sfida con l’America, la Cina sta svalutando la sua moneta.
Sui mercati valutari si segnala un improvviso ribasso dello yuan. Non si sa quanto dovuto alle iniziative della banca centrale, quanto alle tensioni commerciali o agli ultimi dati macro economici. Fatto sta che dopo che la banca centrale, la PBOC, ha manipolato il fixing, facendolo scendere di ben 340 pips su livelli inferiori alle attese (a 6,6497 yuan per ogni dollaro da 6,6157), lo yuan ha subito un brusco calo oltrepassando un’area tecnica chiave a quota 6,70. Ormai il dollaro Usa punta all’area successiva di 6,73 yuan.
La contrazione subita nello spazio di appena 24 ore è un peggioramento che non si era visto nemmeno all’apice del periodo di svalutazione dello yuan nell’estate del 2015 e nemmeno nei momenti di panico di inizio 2016. A contribuire alla negatività sono le ultime cifre macro pubblicati nella seconda economia del pianeta, con l’indice PMI che ha evidenziato un rallentamento dei tassi di crescita, mentre la domanda per le esportazioni è scesa in fase di contrazione.