Il bilancio? «Un’esperienza positiva. Ma avessi saputo che sarebbe durata dieci mesi non so se avrei accettato. Per impostare un lavoro così complicato come quello affidato al ministro dell’Economia e portare a casa un risultato, servono due anni».
L’ex direttore generale della Banca d’Italia precisa di parlare «da economista», che non aveva certo bisogno di un breve passaggio sulla scrivania di Quintino Sella per coronare la carriera.
Ma si capisce che il brusco epilogo brucia ancora di più dopo quanto è successo nelle ultime ore. Con il commissario europeo Olli Rehn che retrocede l’Italia nel girone dei Paesi con «squilibri eccessivi». E il premier Matteo Renzi che dice: «Sapevamo che i numeri non erano quelli che Letta raccontava, ma siamo gentiluomini e non abbiamo calcato la mano…».
Saccomanni risponde con voce ferma: «È una scorrettezza. L’ipotesi che Letta abbia raccontato storie è assolutamente non vera. Noi abbiamo sempre esattamente detto come stavano le cose».
Gli ultimi rilievi europei, però, sono pesanti. La Commissione accusa l’Italia di non aver messo in campo riforme in grado di tirarci fuori dalla palude della scarsa produttività e della crescita inesistente. «Il fatto è che loro hanno interpretato come stime i nostri obiettivi: due cose che sono evidentemente molto diverse. Nel documento di economia e finanza ho scritto che il governo italiano si poneva per il 2014 l’obiettivo di una crescita dell’1,1 per cento. E a novembre mi sembrava di aver convinto la Commissione e Olli Rehn che le misure previste dalla legge di stabilità e da altri provvedimenti avrebbero fatto ripartire la nostra economia a quel ritmo. Magari è obiettivo che il governo Renzi può giudicare insufficiente. Ma affermare che si è nascosta la realtà è scorretto. Vorrei ricordare che nella riunione dell’Eurogruppo del 22 novembre scorso si era chiaramente arrivati alla conclusione che non ci sarebbe stato bisogno di alcuna manovra» replica Saccomani.
Le preoccupazioni europee riguardano soprattutto il debito pubblico, il cui rapporto rispetto al Pil ha raggiunto un livello superiore di undici punti al record di vent’anni fa. Sono convinti che la correzione dei conti prevista per quest’anno non basterà a intaccarne le enormi dimensioni.
«Ma dovrebbero sapere che il Prodotto interno lordo è sceso» argomenta l’ex ministro «non a causa di chissà quali politiche folli, ma per colpa della crisi. E che il debito è aumentato anche perché abbiamo dovuto pagare i conti lasciati con i fornitori dai governi precedenti, che si erano ben guardati dall’onorarli. Quello di Enrico Letta è stato il primo governo che ha restituito i soldi alle imprese. Per non dire dei 50 miliardi di indebitamento che ci siamo accollati per le operazioni di salvataggio di Paesi come Grecia o Irlanda e per alimentare il meccanismo europeo di stabilità…»
Resta il fatto che da novembre a oggi la Commissione europea ha peggiorato il proprio giudizio sulle condizioni della nostra finanza pubblica. «Olli Rehn conosce perfettamente la situazione di oggi, perché gli è stata illustrata nei dettagli. A metà febbraio gli ho mostrato tutto, compresi i conti della spending review che prevedono tagli di spesa crescenti fino al 2 per cento del Pil nel 2016. Parliamo di risparmi per 33 miliardi. Carlo Cottarelli ha fatto un lavoro molto diverso rispetto ai suoi predecessori, un’analisi capillare stabilendo insieme alle amministrazioni periferiche le aree d’intervento: dalla riduzione del costo di acquisto di beni e servizi, all’eliminazione dei sussidi, alla chiusura di enti inutili. Questo improvviso cambio di giudizio mi pare incomprensibile».
Chissà allora che a Bruxelles non abbiano voluto mettere le mani avanti, per prevenire l’offensiva annunciata da Renzi per attenuare le regole capestro sui bilanci pubblici.
«Non esiste una possibilità su un milione che vengano cambiate» è persuaso Saccomanni. «Per ottenere questo risultato è necessaria l’unanimità, che non ci sarà mai. È vero che le regole si possono pure infrangere, andando però incontro alle sanzioni della Commissioni e dei mercati. Ma volendo rispettare il rigore dei conti pubblici si può solo cercare di stabilire un profilo di rientro del debito pubblico più a lungo termine, attraverso un’agenda di riforme».
Non è d’accordo, l’ex direttore della Banca d’Italia, con le tesi espresse da illustri personaggi, per esempio l’ex presidente della Commissione Romano Prodi che un’alleanza dei Paesi mediterranei potrebbe piegare le resistenze tedesche e del fronte rigorista: «Il problema non è solo la Germania. Ci sono Paesi fondatori dell’Unione, come l’Olanda, che hanno problemi interni fortissimi a spiegare agli elettori che si devono spendere denari pubblici per Paesi incapaci a tenere sotto controllo i conti pubblici. Chi poi pensa a un fronte comune con Francia e Spagna deve sapere che i francesi non faranno mai nulla contro la Germania: lo spread della Francia è un quarto del nostro perché loro hanno convinto i mercati che resteranno per sempre agganciati alla locomotiva di Berlino. E la Spagna ha avuto dall’Europa 40 miliardi per salvare le sue banche: impensabile che sia disponibile a posizioni antitedesche. Ma poi diciamola tutta. La fissazione italiana che si debba aumentare il disavanzo pubblico per avere più crescita è un’autentica fesseria».
E deve pensarla come lui anche il suo successore Pier Carlo Padoan. Al «Sole 24 ore» ha dichiarato che non c’è nessuna intenzione di oltrepassare la soglia del 3 per cento imposta dal trattato di Maastricht. «Pier Carlo è molto apprezzato a Bruxelles. Non credo avrà problemi. Ma gli occhi dell’Europa sono molto attenti, e con quell’attenzione dovrà inevitabilmente fare i conti», lo mette in guardia Saccomanni. Che dice: «A pensare male si potrebbe immaginare che l’accelerazione nel cambio di governo sia stata determinata dalla paura che Letta raggiungesse risultati troppo favorevoli: lo spread in discesa, l’economia in ripresa… A quel punto, fra un anno, sarebbe stato molto più difficile mandarci via» scherza Saccomanni. Ma non più di tanto…
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