Società

Diffama datore di lavoro su Facebook, licenziato per giusta causa

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Licenziato in tronco per giusta causa e senza preavviso per colpa di uno sfogo su Facebook rivolto non troppo velatamente al datore di lavoro. Il vice-capo reparto di una grossa azienda del settore ortofrutticolo, vista la posizione di responsabilità ricoperta, non poteva permettersi di ledere con le proprie affermazioni il vincolo fiduciario che lo legava alla sua azienda: questa la decisione del Tribunale del lavoro di Parma, che, in un’ordinanza datata 16 maggio, ha dunque respinto la richiesta di reintregro da parte del lavoratore.

La frase “incriminata” comparsa sul profilo Facebook del vice-capo reparto  prende di mira l’intenzione manifestata dall’azienda stessa, di far lavorare i dipendenti anche di domenica. Questo il testo del post:

“E’ un’offesa ai lavoratori che lavorano la domenica! Tanto meritate solo disprezzo egregi padroni ci costringete a lavorare di domenica con dei discorsi che sanno di ricatto. Anzi li costringete!”.

A nulla è servita la difesa del licenziato, che indicava come destinatari dello sfogo non già l’azienda per la quale lavorava, bensì la generalità del mondo del lavoro e della società. I giudici, però, non hanno ritenuto credibile questa versione, confermando che il lavoratore svolgeva “compiti di particolare responsabilità nella gestione del personale” e “in ragione della mansione svolta, il vincolo fiduciario” doveva “essere valutato con particolare rigore”.
Se il monitoraggio dei social media da parte dei datori di lavoro, da un lato, è già stato ammesso da un’ampia giurisprudenza per fini disciplinari, meno frequente è il caso di una violazione del vincolo fiduciario veicolata da mezzi come Facebook. Non è facile, infatti, definire dove finisca la libertà di espressione e dove inizino gli obblighi legati alle proprie responsabilità di lavoro, soprattutto se si parla di una “piazza” abbastanza nuova come quella di Facebook.
I giudici di primo grado, però, si sono sbilanciati in tale scelta motivando che “il ricorrente” era “perfettamente conscio dell’illegittimità del suo comportamento” e che ha cercato “di spostare l’oggetto del giudizio, da un evidente episodio di diffamazione del suo datore di lavoro (a mezzo internet e segnatamente Facebook) a quello di un preteso esercizio di critica dell’odierna società e delle sue presunte storture” mentre la “valenza diffamatoria” nei confronti del datore di lavoro “non può essere messa seriamente in dubbio”.