Nel 2013 l’economista Thomas Piketty pubblicava il best seller “Il capitale nel XXI secolo”; nonostante le sue conclusioni teoriche siano state confutate da più parti, il dibattito pubblico, da allora, è tornato a discutere con frequenza del problema della diseguaglianza.
In particolare, uno sguardo storico alla distribuzione dei redditi, che nel corso degli ultimi decenni si è rivelata sempre meno equa, suggerisce riflessioni sull’ascesa dei populismi – che dal 2013 a oggi, con le vittorie di Trump, della Brexit, fino ad arrivare al tandem M5s-Lega, ha visto una decisa accelerazione. Uno slancio che potrebbe dare nuova prova di sé alle prossime elezioni europee.
Sempre nel 2013, l’economista Emmanuel Saez (UC-Berkeley) aveva pubblicato un paper che puntava l’attenzione sulla serie storica della distribuzione del reddito negli Stati Uniti. In particolare sulla quota di reddito che veniva percepito dal 10% più ricco della popolazione statunitense. Ed è arrivato a una conclusione d’impatto: la fetta di ricchezza guadagnata da coloro che ricchi sono già, nel 2012, aveva raggiunto livelli superiori a quelli del 1928, al top della bolla azionaria di Wall Street.
“La quota di reddito del decile superiore è intorno al 45% dalla metà degli anni 1920 al 1940. Declina sostanzialmente al di sopra 32,5% in quattro anni durante la seconda guerra mondiale e rimane abbastanza stabile intorno al 33% fino agli anni ’70”, scriveva Saez. Dopo decenni di stabilità nel periodo post-bellico, la quota destinata al decile superiore è aumentata drammaticamente negli ultimi venticinque anni e ora ha riacquistato il suo livello prebellico. In effetti, la quota nel 2012 è pari al 50,4%, un livello più alto rispetto a qualsiasi altro anno dal 1917 e supera addirittura il 1928, il picco della bolla del mercato azionario nei “ruggenti” anni ’20”.
È facile immaginare che l’evoluzione di questo fenomeno, pur nella misura più moderata propria dei Paesi europei, abbia giocato un ruolo nell’ascesa dei movimenti “populisti” – in particolare quelli ritenuti più ‘di sinistra’ come il Movimento 5 stelle, Podemos in Spagna o Syriza in Grecia.
In Italia, ad esempio il Gini Index, una delle misure più popolari per la misurazione della diseguaglianza (si legga il focus più in basso) è passato dal 32,9 del 2007 al 35,4 del 2015; in Spagna l’evoluzione è ancor più evidente, con un Gini passato dal 31,8 del 2003 al 36,2 del 2015.
In Europa, un esempio in controtendenza è invece quello del Regno Unito che ha visto declinare l’indice Gini, dal 2004 a oggi. Ad ogni modo, se spesso la critica mossa al movimento populista è di “pauperismo” o “invidia sociale”, osservare l’evoluzione della diseguaglianza potrà offrire qualche possibile spiegazione.
Una misura per la diseguaglianza, il Gini Index
Non molti sanno che la misura standard per rappresentare sinteticamente le diseguaglianze di reddito di un Paese, prende il nome da uno statistico italiano: Corrado Gini, vissuto fra il 1884 e il 1965. Il popolare Gini index, pur con alcuni limiti, resta il termine di paragone per valutare il grado di equità di un’economia. Cosa rappresenta esattamente?
La deviazione dalla curva di distribuzione del reddito perfettamente equa, laddove un gruppo sociale, ad esempio il 10% più povero, ottiene una quota del reddito del Paese proporzionale alla sua consistenza numerica – in questo caso, la distribuzione equa attribuirebbe a tale gruppo il 10% del reddito. Normalmente è visibile una deviazione più o meno grande da tale condizione di equità “ideale”.
Un esempio concreto: nel 2014 il 10% più ricco dei cittadini statunitensi ha ottenuto il 50% del reddito (nel 1978 la disparità era più contenuta, 33%). Più grande è la distanza dalla distribuzione equa (nota come curva di Lorenz) maggiore è il Gini index e quindi la diseguaglianza di reddito. Nell’infografica interattiva è possibile vedere l’evoluzione del Gini Index dal 1979 a oggi: più il colore è scuro, più è equa la distribuzione dei redditi.