La “questione meridionale” non riguarda solo l’economia, ma anche i giovani italiani. Vivere nel sud Italia infatti ha delle ripercussioni su di loro quando studiano e lavorano. Approfondiamole insieme.
Studiare nel sud Italia
Il divario tra le scuole di nord e sud Italia inizia presto: al centro Italia e al nord est la copertura dei posti ha già superato da diversi anni l’obiettivo del 33% (36,7 % e 36,2% rispettivamente), il nord-ovest è prossimo all’obiettivo (31,5%), mentre le isole (16,6%) e il sud (16%) sono ancora lontani dal raggiungerlo.
Nel sud Italia i posti disponibili negli asili nido sono inferiori al possibile numero di beneficiari del bonus asilo nido. Al centro nord invece si verifica il fenomeno diametralmente opposto. Inoltre, vi sono dei differenziali tra Comuni e ripartizioni geografiche, per cui si delinea una graduatoria delle risorse di cui beneficiano mediamente i bambini (e le loro famiglie) in base al luogo di residenza: si passa dai più di 2.600 euro l’anno dei comuni capoluogo del Centro-Nord ai 737 euro dei capoluoghi del Mezzogiorno, fino a scendere a a 255 euro nei Comuni dell’hinterland del Mezzogiorno.
Il divario nell’istruzione tra nord e sud Italia è certificato anche dalle prove Invalsi ed è pari al 23%. In alcune regioni del sud solo 1 ragazzo su 2 delle scuole medie comprende correttamente quello che legge e 2 studenti su 3 (il 35-40%) non sono capaci di leggere e comprendere un testo in inglese. Nell’anno scolastico 2021-2022 il 42,7% degli studenti meridionali di quinta superiore presenta competenze “molto deboli” in matematica (28,3% in Italia; 15% nel nord est) e solo il 6,7% si collocava a un livello “molto buono” (14,9% in Italia; 22,6% nel nord est). Ciò comporta non solo disuguaglianze in termini di opportunità, ma anche di attenuazione delle differenze economico-culturali.
Lavorare nel sud Italia
Il tasso di disoccupazione nel sud Italia è decisamente superiore rispetto a quello del nord Italia. Campania e Sicilia sono le più colpite, posizionandosi addirittura al sesto e settimo posto a livello europeo per disoccupazione di giovani tra i 15 e i 29 anni.
Drammatica la situazione del sud Italia anche per quanto riguarda i NEET, i giovani che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione. Secondo i dati Eurostat relativi al 2021, la Sicilia è prima in Europa per tasso di NEET (30,2%), seguita dalla Campania (27,7%) e dalla Calabria (27,2%, al quarto posto), contro una media europea del 10,8%.
Laurearsi al nord Italia comporta una retribuzione superiore del 10% rispetto al sud. La differenza è dovuta al tipo di università (la maggior parte sono private). Secondo lo “University Report 2023”, stilato da JobPricing, gli atenei più remunerativi sono:
- Università Commerciale Luigi Bocconi: 35.297 euro;
- Politecnico di Milano: 34.315 euro;
- Politecnico di Torino: 33.244 euro;
- Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli: 33.044 euro.
Inoltre, chi studia al sud spesso si ferma a lavorare lì, percependo uno stipendio inferiore rispetto al nord. Una differenza dovuta anche al lavoro nero: una recente ricerca della Cgia di Mestre attribuisce a quest’ultimo i 2 mesi in più all’anno di lavoro da parte dei lavoratori dipendenti del nord rispetto a quelli del sud.
La fuga dei cervelli dal sud Italia
Negli ultimi 10 anni 762 mila giovani tra i 15 e i 34 anni hanno lasciato il sud Italia, su un totale di 966.938 che hanno lasciato il Belpaese, dicono i dati diffusi questo mese dalla Cgia di Mestre. Particolarmente grave la situazione in Campania, dove sono emigrati 188.605 giovani, ossia il 20% del totale a livello nazionale.
Considerando i dati Istat, tra il 2012 e il 2021 il sud ha perso quasi 125 mila laureati di età compresa tra i 25 e i 34 anni, di cui quasi 100 mila emigrati in regioni del centro nord. Oltre 25 mila giovani sono invece emigrati dalle isole al resto d’Italia. Nel complesso, le uscite dal Mezzogiorno verso l’estero e le altre regioni d’Italia hanno portato alla perdita di circa 150 mila giovani laureati.
Il fenomeno ha permesso al nord Italia di recuperare i suoi cervelli fuggiti verso l’estero, guadagnando 116 mila giovani da sud e isole. Dal 1995, ricorda lo Svimez (associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno), oltre 1,5 milioni di giovani hanno lasciato il Sud Italia per cercare nuove opportunità lavorative, spostandosi in particolare nelle regioni del Nord. Parallelamente, il Pil pro-capite del Mezzogiorno è ormai la metà di quello del Nord Italia e il suo tasso di occupazione è cresciuto, negli ultimi 25 anni, 4 volte meno rispetto al Nord.
Ritorno a casa con il south working?
Una possibile leva per il ripopolamento del sud Italia da parte dei giovani potrebbe essere il south working, ossia il lavoro da remoto per aziende fisicamente collocate nell’Italia del Nord, svolto da casa o in regime di smart working nel sud Italia. Si tratta di una pratica che ha preso piede durante il periodo del lockdown, quando i lavoratori fuori sede, invece di restare a lavorare in smart working dalla loro casa in centro o nord Italia, hanno approfittato per tornare dalle rispettive famiglie in sud Italia.
Nel marzo 2020 è nata anche South Working, l’associazione no-profit che mira a migliorare l’economia delle regioni del Sud Italia e insieme a lei abbiamo cercato di capire se ci sia un modo per garantire a tutti, in tutta Italia, le stesse opportunità.
Secondo lo studio “South working per lo sviluppo responsabile e sostenibile del Paese”, stilato da Randstad e Fondazione per la Sussidiarietà (FPS) nel 2022, il 61% delle aziende italiane guarda con interesse agli “hub di lavoro” nel sud Italia.