MILANO (WSI) – Incontrare qualcuno che si era perso di vista per qualche tempo e scoprire che ora porta gli occhiali, oppure ha perso i capelli, oppure se li ritrova ingrigiti. Dirgli che è rimasto identico e pensare invece che ora ha le rughe, cammina curvo o ci sente poco. Che ha avuto insomma quello che i francesi chiamano un coup de vieillesse, un invecchiamento improvviso. L’effetto, al primo impatto, è straniante e un poco deprimente ma non dura molto.
La nuova immagine si sovrappone presto alla vecchia e tutto ritorna in ordine. Si viveva spensierati, nei mercati finanziari, fino a qualche settimana fa. Il ciclo economico positivo, partito nella primavera del 2009, non mostrava affatto i suoi cinque anni e quattro mesi di vita, che per i cicli, come per i cani di grossa taglia, corrispondono più o meno ai 50 anni per gli esseri umani. Sembrava molto più giovane. Appariva gracile, magro e vagamente efebico come solo un adolescente può essere. Non un fisico performante come quello di un adulto palestrato ma, in cambio, la prospettiva di una lunghissima vita davanti a sé.
Sembrava comportarsi, questo ciclo, come i topolini da laboratorio alimentati con la metà delle calorie ingerite abitualmente. Magri, piccolini, privi di radicali liberi, refrattari ai tumori e capaci di vivere quasi il doppio dei topi in grado di mettersi a tavola e servirsi liberamente. Una questione di metabolismo e di ormoni.
La pelle liscia, i folti capelli e la freschezza dei tratti erano il risultato della crescita bassa e dell’inflazione quasi inavvertibile, che in primavera appariva addirittura destinata a scendere sotto l’uno per cento. La dieta ipocalorica, si diceva, aveva fatto sì che le scorte di cibo a disposizione di questo ciclo, gigantesche nel 2009, fossero ancora praticamente intatte. Scorte di cibo costituite dalle risorse disponibili ma inutilizzate, disoccupati da una parte e capannoni pieni di macchinari ancora fermi dai tempi della crisi dall’altra. Finché ci sono risorse inutilizzate così ampie, era la tesi, non ci sarà inflazione per anni e anni a venire, non ci sarà motivo per alzare seriamente i tassi da parte delle banche centrali e non ci sarà quindi ragione per vendere i bond o per non comprare azioni quando le società, pur con una crescita bassa, hanno utili in aumento.
Nel giro di poche settimane si è però scoperto che i nostri topolini hanno meno muscoli (crescita) e più grasso (inflazione) di quello che si pensava. La caduta del Pil del primo trimestre, quel pesante meno 3 per cento annualizzato, era stata frettolosamente archiviata come effetto del maltempo e del miniciclo delle scorte, ma a un secondo esame è risultata dovuta anche a una discesa della produttività. Il secondo trimestre, inizialmente immaginato in fortissimo recupero, si è rivelato certamente buono, ma meno brillante della attese. L’Europa, che doveva finalmente rientrare tutta quanta in carreggiata, può esibire per ora solo risultati modestissimi. Le prospettive per la seconda metà dell’anno sono state anch’esse ridimensionate. Alla fine, questo 2014 inizialmente dato al 3 abbondante di crescita, risulterà essere l’ennesima conferma di quel 2 che abbiamo visto in questi cinque anni.
Il problema, strategicamente, non è la bassa crescita in sé, ma il fatto che una crescita debole stia già facendo ripartire i prezzi. Non è in questione il livello assoluto dell’inflazione, ancora accettabile, ma quanto le sta dietro e cioè la possibilità che quello che ci siamo raccontati per tanto tempo, l’esistenza di grandi risorse inutilizzate, sia almeno in parte un’illusione.
Non sono del resto solo le posizioni di lavoro particolarmente qualificate a essere difficili da coprire, se non facendo leva sulla retribuzione. Si fa ormai una grande fatica a trovare camionisti, anche a pagarli 120-150mila dollari l’anno, come si fa da qualche tempo nelle zone minerarie.
I mercati hanno festeggiato l’accelerazione nella creazione di nuovi posti di lavoro, ma non hanno notato come questa stia avvenendo solo nel part time (che serve tra l’altro ad aggirare i costi e gli obblighi dell’Obamacare). Questi impieghi sono retribuiti poco sopra i sussidi di disoccupazione e la fiscalità negativa che si vanno a perdere rientrando nel mondo del lavoro. Generano quindi pochi consumi aggiuntivi e non danno quella sensazione di solidità e fiducia che può indurre a chiedere un mutuo per farsi una casa.
I mercati tendono anche a dimenticare che l’occupazione ha due lati. Da una parte, quella macroeconomica, Krugman ha ragione quando afferma che un sottoccupato malpagato è comunque più produttivo di un disoccupato. Dal lato delle imprese un occupato assunto in una fase alta del ciclo (con meno cautele di quelle usate in tempi di crisi) è però un costo che tende a erodere i margini.
La bassa crescita della produttività, le prime tensioni sul mercato del lavoro, l’avvicinarsi veloce del pieno impiego, l’uscita dal mercato del lavoro di una quantità continuamente crescente di anziani e il ridotto ingresso degli immigrati non sono ancora fattori in grado di provocare la fine del ciclo espansivo americano. La vita di questo ciclo è ancora molto lunga (almeno altri tre-quattro anni, probabilmente) ma appare oggi meno estesa di quello che si pensava ancora tre mesi fa. E anche meno intensa, almeno fino a quando le imprese non si decideranno a investire in produttività e non solo in azioni proprie.
L’Europa non è certo a rischio di surriscaldamento, se non in alcune aree dell’economia tedesca. Il fatto però che non ci siano moltitudini di giovani europei disoccupati che vogliano fare i camionisti in America (che dal canto suo non vuole molti immigrati) dimostra che i mercati del lavoro rimangono pesantemente segmentati. Il grande serbatoio della disoccupazione globale è in realtà un insieme di piccoli laghi regionali che non comunicano tra loro come dovrebbero. Anche questo, nel tempo, abbassa la produttività del sistema.
Il rischio europeo non è dunque il surriscaldamento ma una lenta asfissia. Il modello tedesco per l’Eurozona non è cambiato e lo sconsolato Praet, membro belga della Bce, afferma che siamo allo stesso punto di un anno fa. Le grandi manovre della Bce non riescono a indebolire l’euro (per il quale c’è ancora da smaltire una forte domanda arretrata delle banche centrali asiatiche che lo vogliono reinserire nelle loro riserve) e bastano appena a riportare la base monetaria al livello di due anni fa.
I bond e le borse non sembrano particolarmente preoccupati della situazione generale. I bond si mostrano indifferenti all’inflazione perché hanno visto i prezzi al consumo giapponesi salire in un anno di due punti percentuali (senza contare l’aumento dell’Iva) e i Jgb decennali rimanere praticamente immobili. Ironicamente, dopo che da due anni si è raccomandato in tutto il mondo di non spingersi su scadenze lontane, sono proprio i titoli a 12-24 mesi quelli che rischiano di più (nell’area dollaro) nel prossimo futuro.
Le borse, dal canto loro, possono ancora contare su una certa crescita degli utili (più finanziari che operativi, ma in questa fase va bene lo stesso) e non sembrano troppo turbate dai moniti delle banche centrali a non eccedere, che per il momento suonano benevoli e inoffensivi. Il diabolico Birinyi, che ne sbaglia pochissime, prevede 2100 per l’SP 500 di fine anno.
L’autunno porterà un minimo di turbolenza ma non sarà necessariamente il classico momento fatidico in cui le borse si accorgono dell’imminente aumento dei tassi e reagiscono male. Quel momento verrà, ma più avanti.
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