E’Alan Greenspan il nuovo presidente della Banca centrale europea? La
domanda è provocatoria, ma anche legittima, alla luce di quanto è avvenuto
nell’Eurotower di Francoforte, sede della Bce.
Il consiglio dei governatori
ha deciso di aumentare di un quarto di punto l’intera griglia dei tassi,
portando quello medio di rifinanziamento al 3,25%. Soltanto tre mesi fa, il 4 novembre ’99, la Banca centrale europea aveva deliberato un aumento dei
tassi di mezzo punto, dal 2,50 al 3%, definendo la decisione come una misura
preventiva contro i rischi di inflazione.
Wim Duisenberg, il banchiere
centrale olandese che presiede la Bce, commentò in quella occasione:
”Abbiamo aumentato i tassi di mezzo punto proprio per evitare che i mercati
si chiedano: a quando il nuovo intervento? Insomma, per un bel po’ di tassi
non parleremo più”.
Dopo soli 90 giorni, la Bce ha deciso un nuovo aumento
dei tassi. E allora i casi sono due: o gli economisti della banca centrale
non sanno fare previsioni a tre mesi, o la Bce non ha più la possibilità di
condurre una politica monetaria autonoma da quella americana.
Conoscendo
bene la bravura di Otmar Issing, capoeconomista della Bce e prima ancora
della Deutsche Bundesbank, e della sua struttura, propendiamo nettamente per
la seconda possibilità.
Oggi, la politica monetaria europea la si fa a
Washington, nella sede della Federal Reserve, e non nel brutto grattacielo
della Kaiserstrasse, a Francoforte, dove ha sede la Bce.
In numerosi interventi pubblici, anche recentissimi, i vertici della Banca
centrale europea avevano espresso due punti fermi: a) le pressioni
inflazionistiche in Euroland sono presenti, ma ampiamente sotto controllo
tanto da non mettere in pericolo l’obiettivo di una media del 2% negli
undici Paesi dell’area a moneta unica; b) il tasso di cambio dell’euro,
deprezzatosi in tredici mesi il 15% rispetto al dollaro e il 22% nei
confronti dello yen, non rappresenta in sè un problema in quanto la Bce ha
il compito istituzionale di badare alla stabilità dei prezzi, e il cambio
non ha finora minato questa stabilità.
Nel suo discorso di sabato scorso
all’assemblea degli operatori finanziari italiani, il governatore di
Bankitalia Antonio Fazio ha detto: ”L’indebolimento del cambio non ha
esercitato finora eccessive pressioni inflazionistiche; ha giovato in misura
limitata alla ripresa del ciclo”.
Un sondaggio della Reuters su 41 operatori
finanziari europei, alla fine della scorsa settimana, vedeva solo 11
risposte che ipotizzavano l’aumento dei tassi europei nella riunione Bce del
4 febbraio. Lunedì, davanti agli undici ministri finanziari di Euroland
riuniti a Bruxelles, Duisenberg ha cambiato del tutto i toni, dicendo: a) le
pressioni inflazionistiche crescono; b) rischiano di aumentare ancora di più
alla luce del deprezzamento dell’euro.
Nonostante le perplessità dichiarate
dai ministri finanziari europei nella riunione di Bruxelles, la Bce ha
ugualmente deciso di aumentare i tassi, nella stessa misura – lo 0,25% –
deliberata meno di ventiquattr’ore prima dal Federal Open Market Committee
della Federal Reserve.
Il rapporto causa-effetto tra le decisioni di Washington e quelle di
Francoforte è evidente, e nessuna dichiarazione di segno contrario potrà
apparirci convincente. Oggi abbiamo avuto la prova che la politica monetaria
europea la fa Alan Greenspan.
E’ la conferma di una felice intuizione del
professor Paolo Savona, ex ministro dell’Industria nel governo Ciampi. In un
suo intervento alla sessione dell’Aspan Institute dedicata al 2000
‘Transatlantic Century’, Savona ha sostenuto che l’Europa non può avere,
oggi come oggi, una politica monetaria autonoma. Il tentativo di decoupling,
ovvero di mantenere
l’autonomia europea rispetto agli Stati Uniti – che per qualche tempo è
riuscito nell’intento – adesso è fallito. Il rialzo dei tassi europei,
nell’entità e nei tempi, assomiglia molto a una resa incondizionata nei
confronti dei padroni dell’economia internazionale.
La ”greenspanology”,
ovvero l’arte di interpretare le parole e le mosse del presidente della
Federal Reserve, ha fatto il suo ingresso trionfale nell’Eurotower di
Francoforte. La ricetta americana è stata ritenuta adatta anche per
l’Europa, nonostante le profonda differenze congiunturali, e quelle relative
al mercato del lavoro, alle politiche fiscali e di spesa, al welfare e così
via.
Il rinvio del rialzo dei tassi europei alla riunione del 17 febbraio o
a quella del 2 marzo non avrebbe modificato la situazione, e avrebbe almeno
dato agli europei una sensazione diversa rispetto a quella che si prova
oggi: che la Bce di Francoforte, Europa, non sia tanto diversa da una
succursale della Fed a Pittsburg, Pennsylvania, o San Francisco, California.