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E’ IL GRANDE GIOCO DEL DOPO BERLUSCONI

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(WSI) – La minaccia di Maroni: o si chiude la verifica sabato o si va alle elezioni anticipate, non suona tanto come una minaccia, quanto come una previsione. Non solo perché sembra difficile risolvere in tre giorni quello che non si è risolto in 13 mesi, ma perché non è in discussione la manovra di bilancio o la modulazione dei tagli fiscali.

Sulle cose concrete, un compromesso si può sempre trovare, concedendo un po’ a questo un po’ a quello. No, è in discussione l’esistenza stessa di una coalizione che non è più tale. Si è sfrangiata un anno fa dopo le prime sconfitte alla provincia di Roma e in Friuli. Si è dissolta dopo la batosta alle provinciali. E’ una questione di stile, che in politica conta: non ci si può trattare ogni giorno a pesci in faccia e poi mettersi a tavola come se nulla fosse. Ma è, soprattutto, una questione di sostanza, perché gli alleati, una volta visto che l’astro Berlusconi è al tramonto, stanno giocando tutti al dopo Berlusconi. Solo che ciascuno di loro gioca in campi diversi.

Più tattica appare finora la posizione di Gianfranco Fini, ancorato alla dottrina riequilibrio all’interno del centro-destra. Se lo spostamento del baricentro avviene adesso, bene, altrimenti perché non puntare già al dopo? Più strategica la posizione di Marco Follini. Lanciando il ritorno al proporzionale, ha in mente un gran rimescolamento di carte con due possibili varianti di medio periodo: un centro-destra sempre più spostato al centro, capitalizzando la crisi di Forza Italia, oppure un centro-sinistra anch’esso più centrista, magari una volta che le contraddizioni interne avranno fatto implodere l’Ulivo.

La seconda ipotesi si può realizzare solo dopo che l’opposizione sarà tornata al governo. La prima o si realizza subito o passa anch’essa attraverso una prova elettorale. Quanto alla Lega, ha dimostrato che al Nord è ancora in grado di raccogliere qualcosa come il 17%. Dunque pensa di valere molto più di quel che ha raccolto nel 2001. Un nuovo passaggio alle urne sarebbe, a questo punto, ristoratore.

Ma chi ha più interesse alle elezioni anticipate, oggi come oggi, è proprio Berlusconi. Farsi logorare da un biennio di ingovernabilità sarebbe la peggiore uscita di scena. Il Cavaliere è incoraggiato dal pareggio alle europee e pensa di avere ancora delle chance se riesce a far tagliare le tasse (cosa che gli alleati gli vogliono impedire). Può perdere, anzi, attualmente è più probabile che perda, ma sarà comunque lui a gestire la danza (a cominciare dalla distribuzione dei collegi).

Se le cose stanno così, al voto si potrebbe arrivare anche prima delle europee e con questo sistema elettorale, perché è probabile che Berlusconi non ripeta l’errore (per lui) dell’election day. Il capo del governo potrebbe prendere direttamente in mano la situazione, sabato, e chiedere agli alleati il loro assenso su alcune riforme essenziali: fisco, pensioni, risparmio. Se si impegnano a farle passare in parlamento, allora la maggioranza può ripartire. Altrimenti, meglio rivolgersi agli elettori.

L’eclisse del berlusconismo è anche l’eclisse della seconda repubblica, come pensano in molti? Certo, questi dieci anni di bipolarismo imperfetto si sono chiusi male sia nella fase ulivista sia in quella berlusconiana. Se l’uscita di scena è quel distingue un grande attore, allora vuol dire che questo modo di coalizzarsi e di governare contiene in sé gravi difetti da correggere. La proposta di Follini, da questo punto di vista, va discussa senza pregiudizi, se il suo intento è salvare (e rinvigorire) il bipolarismo.

Ma i sistemi elettorali rispondono sempre a un disegno politico-istituzionale. Il decennio che ci sta alle spalle non è da cancellare. Non si può gettare la governabilità come valore in un sistema politico ben funzionante. Non si può buttare l’alternanza, né il fatto che i cittadini sono chiamati a scegliere chi li governa (uomini e programmi) per l’intero mandato che il corpo elettorale affida alla maggioranza. Tutto ciò non è berlusconismo, sono i precetti di una democrazia matura.

PROPORZIONALISMI. LA PROPOSTA FOLLINI FA RUMORE, UN PRESUNTO GOVERNO-CASINI PURE

Nel parlamento il Grande Centro esiste già. Ma la nuova diccì non la vuole il Vaticano. Torna la balena bianca? Mastella nostalgico, Maccanico negazionista, Tabacci inarrestabile.

«Se l’Udc pensa a un sistema proporzionale che faccia riaffiorare il Grande Centro noi siamo assolutamente contrari», dice il leghista Alessandro Cè. In verità, non è che ci volesse la proposta di Marco Follini per farlo rinascere. Il «Grande Centro» è sempre stato vivo e continua a lottare insieme a noi. Anzi, a dirla tutta, è sicuramente più potente di quando c’era la diccì, grazie al trasversalismo cattolico bipolare. Ed è proprio per questo che oltretevere una rediviva balena bianca non interessa, poiché dal referendum sul divorzio in poi l’incidenza della santa sede sul parlamento non è mai tornata così decisiva come nella seconda Repubblica.

L’attuale situazione ricorda infatti molto da vicino il «Patto Gentiloni», dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica che nel 1913 invitò a votare quei candidati che si impegnassero, una volta eletti, a rispettare un programma clericale. Risultato: furono circa duecento i parlamentari filo-vaticano. Oggi sono molti di più, rappresentano circa i tre/quinti del parlamento, e fanno lobby. Quanto è accaduto di recente sulla fecondazione assistita sta lì a dimostrarlo (tutto questo senza ovviamente considerare l’accondiscendenza della sinistra verso il Papa, sconosciuta nei termini attuali al Pci berlingueriano).

Ma anche se per la chiesa (Ruini docet) l’unità politica dei cattolici non s’ha da fare, c’è chi in parlamento ci lavora da sempre, a volte in superficie altre di nascosto. Alla prima categoria appartengono molti popolari della Margherita (Gerardo Bianco, ad esempio), Clemente Mastella con la sua Alleanza popolare e padri nobili come Giulio Andreotti e Francesco Cossiga; alla seconda categoria si può invece iscrivere tutto un sottobosco di cattolici di Forza Italia (gli scajoliani) e An (la corrente di Publio Fiori e la destra sociale). Nel mezzo, a proporre l’Udc come punto d’aggregazione dei politici cattolici, ci si è ora messo Follini rilanciando il proporzionale. In verità, stando alle sue dichiarazioni, il segretario centrista sostiene anche che così il bipolarismo si rafforzerebbe.

Siccome però siamo in tempi di verifica e rimpasto, il discorso viene considerato perlomeno sospetto. A destra la fibrillazione è tanta. Al di là del merito, che in teoria non li vede contrari, la Lega e Berlusconi considerano il proporzionale una trappola per portare Pier Ferdinando Casini a Palazzo Chigi nel 2006 se la nuova legge elettorale passasse, oppure prima con un governo istituzionale se il proporzionale non entrasse nella verifica. Detto che la seconda ipotesi Casini non la valuta nemmeno, pure An non è contenta, poiché per la destra politica il maggioritario ha significato l’uscita dal frigorifero e perché il proporzionale potrebbe ricacciarcela. Dicono adesso da via della Scrofa che «Follini non si deve illudere perché il Centro post-berlusconiano lo occuperemo anche noi», ma un po’ di disagio si sente.

Anche perché c’è chi sta già concretamente facendo campagna elettorale per il Grande Centro. Uno di questi è Bruno Tabacci. Basta andare un giorno qualsiasi in Transatlantico per ascoltarlo ragionare sulla «nuova Dc». Ieri lo faceva con Salvatore Ladu, deputato sardo della Margherita. «Vedi Salvatore, io sono democristiano, tu sei democristiano, che ci facciamo io con Berlusconi e tu con Prodi? È solo un accidente della storia, noi siamo destinati a rimetterci insieme, la politica contro l’antipolitica». E Ladu cosa ne pensa? «Non ci sono le condizioni, a meno che Follini non tagli con Berlusconi».

Il punto che non permette la rinascita della Dc è esattamente questo: i diccì di destra vorrebbero quelli di sinistra alternativi alla sinistra; i diccì di sinistra vorrebbero quelli di destra alternativi alla destra. Per questo Antonio Maccanico sostiene: «Visto che gli attuali schieramenti non sono più superabili, i Poli puntassero piuttosto a darsi un’identità precisa».
Insomma, quelli come Tabacci che vogliono l’autonomia diccì sembrano davvero pochi: «Non è vero – replica l’esponente centrista – Sono la maggioranza in entrambi i Poli. Ma sono sotto il ricatto del maggioritario e hanno paura di perdere il collegio.

Per esempio, quante volte Berlusconi ha già definito “ingrati” i nostri deputati eletti dalla Cdl? Come se i collegi fossero i suoi personali. Ecco perché ci devono dare il proporzionale entro il 2006, perché così “ingrati” ce lo potranno dire solo gli elettori, non gli oligarchi di entrambi gli schieramenti che fanno e disfanno a loro piacimento». Insomma, «la diccì rinascerà», Tabacci ne «è certo». Un piano a cui lavorano da sempre anche Pomicino e Mastella: «C’è molta nostalgia, ma adesso non facciamone un progetto nostalgico», dice il leader di Ap. Che subito aggiunge: «Però anche Casini mi ha riconosciuto che adesso stanno tutti diventando mastelliani».

Allora vi siete parlati, come mai? Mastella prende e scappa via, da vecchia volpe qual è. Raggiunge altri protagonisti di un ideale Grande Centro. Perché se è vero che il concetto che «i simili devono stare con i simili», allora a dimostrare l’immutata vicinanza tra democristiani è proprio il Transatlantico. Di qualsiasi schieramento siano, i diccì stanno sempre assieme, chiacchierano, si frequentano. Molto più che con i loro rispettivi alleati. Tornasse davvero il proporzionale, chissà…

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