Tra le sue principali funzioni c’è quella di formulare previsioni sull’andamento dell’economia mondiale, ma non è stato in grado di prevedere la bufera sui debiti sovrani. Elargisce prestiti miliardari, ma è accusato di imporre condizioni talmente restrittive da svuotare la sovranità dei paesi che ne beneficiano, stritolarne l’economia reale e le popolazioni che ne traggono sostentamento. Dovrebbe «incoraggiare la cooperazione monetaria globale, garantire la stabilità finanziaria, facilitare gli scambi internazionali, promuovere l’occupazione e una crescita economica sostenibile e ridurre la povertà nel mondo» ma – argomentano i critici – in realtà è una istituzione disperatamente in cerca di identità e missione.
Se il Fondo Monetario Internazionale finisse dalla parte dell’imputato in un ipotetico processo, la requisitoria del pubblico ministero inizierebbe all’incirca a questo modo. E, a giudizio degli economisti dei più diversi orientamenti interpellati da ‘l’Espresso’, ci sarebbero buone probabilità di giungere a una sentenza di condanna.
Perché a detta dei critici il Fondo, nelle cui mani – insieme alla Commissione dell’Unione europea e alla Bce – riposa il futuro della Grecia e dell’intera Eurozona, è una istituzione antidemocratica, opaca, preda degli interessi di pochi e che, in definitiva, così com’è non si capisce nemmeno bene a che serva.
Nata alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’organizzazione che raccoglie 187 Paesi e gestisce centinaia di miliardi di euro dovrebbe essere urgentemente riformata. A partire dalla sua funzione, come spiega Franco Bruni, docente di Teoria e politica monetaria internazionale all’Università Bocconi: «Da quando, all’inizio degli anni ’70, è caduto il sistema di Bretton Woods», argomenta, «il Fmi è una istituzione in cerca di lavoro. Perché è finita quella che costituiva la sua funzione principale: la regia di un mondo di cambi fissi».
Da allora, dice Bruni, «ne ha fatte di tutti i colori»: dal riciclo dei petroldollari all’espansione delle sue attività nei paesi in via di sviluppo», finendo per «pestarsi i piedi con la Banca Mondiale» a causa dell’estensione dei suoi finanziamenti ad ambiti che nulla hanno a che vedere con il sistema dei cambi.
Non solo: «Con il passare degli anni ha iniziato a giudicare, tramite visite regolari, i sistemi di vigilanza, regolazione e stabilità finanziaria dei Paesi bisognosi del suo intervento», aggiunge Bruni. Un ruolo intensificatosi a partire dalle prime crisi degli anni ’90, conclude, ma che ha generato la confusione nell’attribuzione di compiti e responsabilità, e le relative accuse di ‘commissariare’ la politica, che appare evidente in questi mesi sull’orlo del baratro.
Parte essenziale di una riforma del Fondo sarebbe una ridefinizione del peso dei suoi azionisti. Oggi, infatti, i soli Stati Uniti detengono un forte potere di veto sulle sue scelte, dato che detengono il 17,7 per cento dei voti all’interno del Board dei Governatori, la sua più alta autorità decisionale. La Cina, pur detenendo il 45 per cento del debito estero americano, è al 4 per cento. Economie in forte sviluppo come il Brasile e l’India non vanno oltre l’1,7 e il 2,4 per cento, rispettivamente.
«Questo è assolutamente un problema», sostiene il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, già economista per il Fondo dal 2000 al 2005, «perché pesa negativamente sulla legittimità del Fmi: è evidente che la distribuzione delle quote riflette un mondo che non c’è più, e la credibilità delle sue politiche ne risente».
Quanto all’Europa, il peso è distribuito ai singoli Paesi. Con la conseguenza che, qualora emergano dissensi, la sua voce conta meno di quanto potrebbe se vi fosse un rappresentante unico. In ogni caso, aggiunge l’economista Tito Boeri, anche lui in passato consulente del Fondo, «c’è ancora molto una impostazione Occidentale, che ignora il peso crescente dei paesi emergenti. Se c’è da ricalibrare il Fondo dev’essere sicuramente in quella direzione». Con una precisazione: «Chi solleva questo problema, tuttavia, dovrebbe rendersi conto che la naturale implicazione è dare più peso a loro. L’Italia conterebbe ancora meno». Per quanto le quote siano state parzialmente ridefinite nel 2010, lo squilibrio resta.
Un ulteriore problema è rappresentato dalla complessità della governance del Fondo, oggi distribuita all’interno di un intreccio incredibile di organi. Un Board dei governatori, uno per Paese (di norma il ministro delle finanze o il capo della banca centrale), cui spetta ridefinire il peso delle quote e l’ammissione di nuovi membri. Due comitati ministeriali che consigliano i governatori. Un Board esecutivo, i cui 24 membri dovrebbero rappresentare gli interessi di 187 Paesi, anche 24 alla volta, e controllarne lo stato di salute finanziaria.
Le decisioni sono prese per consenso o voto formale sotto la direzione di un ‘direttore operativo’ e del suo staff. Attualmente a capo del Fondo c’è Christine Lagarde, uno stipendio da circa 31.700 euro al mese, 551.700 dollari l’anno: 130 mila in più del predecessore Dominique Strauss-Kahn.
Nonostante il Fondo sia dotato al suo interno di un Ufficio di Valutazione Indipendente, di un Ufficio per l’Etica e addirittura di una hotline attiva 24 ore su 24 per chi volesse spifferarne i difetti, più di qualcuno argomenta inoltre che l’intera macchina sia tutt’altro che efficiente e trasparente. E non solo gli ‘indignati’ accampati nelle piazze di tutto il mondo: «Serve una governance interna snella», argomenta Bruni, «perché in questo momento il governo del Fondo è estremamente complicato. C’è una gerarchia di due organi che si pestano i piedi, sono pieni di carte. Io ho visto come lavorano, è impossibile. Serve un consiglio direttivo professionale, scelto non in base a criteri politici, non Christine Lagarde, ma veri banchieri internazionali con grandi capacità».
Ma non è un problema solo di burocrazia. Il sociologo Luciano Gallino, autore di un recente volume intitolato ‘Finanzcapitalismo’, non ha dubbi: «L’Fmi è un organismo intrinsecamente non democratico, quindi il suo funzionamento è opaco per definizione. Probabilmente è trasparente a chi ne sta dentro e chi ne influenza le decisioni.» Perché non democratico? «Perché il Fondo rappresenta nel modo più chiaro e netto la struttura della finanza internazionale con le sue esigenze. Quindi non soltanto di democratico non ha nulla: ha ostacolato in vario modo i sistemi democratici in molti paesi», attacca Gallino, «perché la sua ricetta è sempre stata ‘ti presto dei soldi a condizione che attui riforme – le chiamano così – intrinsecamente non democratiche’: privatizzare tutto il privatizzabile, tagliare le pensioni, la sanità, la scuola pubblica, ridurre il ruolo dello Stato».
Il problema è che il Fondo «nei suoi fondamenti incorpora la mitologia economica neoliberista, e mi sembra molto difficile riformarla: la mitologia neoliberista non si riforma. Bisogna pensare a riformare l’architettura del sistema finanziario internazionale e in questa riforma si potrebbe trovare anche una collocazione diversa del FMI», argomenta Gallino. Che ricorda come fu lo stesso Ufficio di Valutazione del Fondo, nel 2008 e con «mezza dozzina di banche già fallite negli Stati Uniti e in Europa», a criticare l’orientamento dell’istituto. In cui per il sociologo vige «un pensiero totalitario, non molto diverso da quello totalitario dell’estrema sinistra di stampo sovietico.»
Critiche che si aggiungono a quelle formulate dall’ex capo economista, Kenneth Rogoff, a settembre dello scorso anno: «Soltanto un anno fa, al meeting annuale dell’Fmi a Washington», ha scritto in un intervento sul ‘Sole 24 Ore’, «i funzionari più esperti sostenevano che il panico per la crisi del debito sovrano in Europa era una tempesta in un bicchier d’acqua. L’Fmi sosteneva che perfino le dinamiche del debito della Grecia non fossero un problema serio».
Segnali insomma di una perdita di credibilità, e di una capacità previsionale non eccelsa. Anche se, precisa Fassina, più che di mancata comprensione in alcuni casi potrebbe trattarsi di una precisa strategia comunicativa. Perché «bisogna tener conto che se il Fondo dice che la Grecia fallisce, la Grecia fallisce un minuto dopo».
Qualche segnale positivo, aggiunge l’esponente Pd, viene dal fatto che negli ultimi anni il Fondo abbia fatto «delle correzioni di linea significative», anche grazie al nuovo capo economico Olivier Blanchard, allontanandosi dall’ortodossia. E a uno studio, prodotto dagli economisti del Fondo, che smentisce le teorie di chi «come Alesina e Giavazzi parla di politiche di austerità espansive. E dimostra che, al contrario, sono recessive», dice Fassina.
Ma molto resta da fare. E se c’è chi, come il professor Bruni, afferma che «bisogna portare via il Fmi da Washington» perché «non è bello che i funzionari del Fondo che esaminano la politica monetaria del Gabon o dell’Indonesia arrivino a un posto che è a poche centinaia di metri dal Tesoro americano», l’economista e senatore Fli Mario Baldassarri ricorda che il problema è sistemico: «Io farei un processo all’Occidente e all’Europa, non solo al Fondo. Nel senso che l’Occidente si sta suicidando e l’Europa non esiste. Non è mai esistita».
Per Baldassarri, «occorre una nuova governance, un nuovo G8 che proceda a fare la nuova Bretton Woods, il nuovo Fmi, la nuova Banca Mondiale». A quel tavolo dovrebbero sedere con pari dignità le potenze emergenti, e un rappresentante degli ‘Stati Uniti d’Europa’. «Altrimenti continueremo ad alimentare la ricchezza cinese, che tra l’altro non serve ancora a migliorare il tenore di vita dei cinesi», argomenta il senatore. Ma perché ciò avvenga servono risposte politiche, «non tecnicalità del Fondo».
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