Questo articolo rappresenta la seconda puntata del filone sul rischio di una patrimoniale in italia, offrendo un quadro completo sull’eventualità di un’imposta simile. In rete non esiste nulla di simile che affronti il problema in modo chiaro, completo e scientifico, come invece viene fatto qui.
Leggi prima puntata: Aspettando una patrimoniale
ROMA (WSI) – Nei giorni scorsi abbiamo già proposto un articolo introduttivo nel quale siamo giunti alla conclusione che la ricchezza degli italiani, essendo di oltre 4 volte lo stock del debito pubblico, costituisce la garanzia offerta agli investitori che investono nel nostro debito pubblico.
Quindi, in base ai dati resi noti da Bankitalia, siamo giunti alla conclusione che il patrimonio degli italiani è costituito da:
– Attività reali per 5977.80 miliardi di euro
– Attività finanziarie per 3541 miliardi di euro
– Passività finanziarie per circa 900 miliardi di euro
Queste due macro classi di attività, dedotte dalle passività, costituiscono la ricchezza netta degli italiani che quindi viene quantificata in euro 8619,3 miliardi di euro.
Il dato, essendo multiplo di oltre quattro volte lo stock di debito pubblico, fa un po’ impressione e suscita l’interesse di chi vorrebbe che, almeno parte di questa enorme ricchezza, possa essere utilizzata per abbattere il debito pubblico confinandolo entro volumi di maggio sostenibilità.
C’è chi evoca addirittura la necessità di portare il rapporto debito/pil sotto il 100% (oggi al 127%). Non solo, ma anche buona parte dei burocrati europei auspicano, per l’Italia, una soluzione di questo tipo al fine di consentire di porre il debito pubblico italiano in un sentiero di maggior sostenibilità, abbattendo anche il costo per interessi che, ogni anno, costa al contribuente italiano circa 80 miliardi di euro, con previsioni di crescita fino a raggiungere oltre i 100 miliardi nel 2015.
Addirittura, qualche settimana fa , l’invito è stato rilanciato anche dal capo economista della Commerzbank, Jörg Krämer, che ha auspicato l’applicazione di un’imposta patrimoniale del 15% sulle attività finanziarie in possesso ai risparmiatori italiani (titoli di stato, obbligazioni conti correnti ecc ecc), in modo da ridurre il debito pubblico entro il 100% in ragione del Pil, e abbattere considerevolmente anche gli oneri al servizio del debito.
Alla luce di quanto sopra, cerchiamo di capire in che modo potrebbero essere tassate queste ricchezze e le difficoltà che potrebbero riscontrarsi nell’applicazione di una imposta patrimoniale (ordinaria o straordinaria) da parte dello stato. Per fare ciò, occorre procedere alla scomposizione della ricchezza.
Abbiamo detto che le attività reali costituiscono circa 6000 miliardi di euro, e queste sono costituite da abitazioni, oggetti di valore, fabbricati non residenziali, impianti e macchinari, e infine terreni, per un totlae di precisamente 5.977,8 miliardi di euro.
Dai dati desumiamo che la parte prevalente della ricchezza è costituita da abitazioni, già ampiamente tassata con l’IMU o con altre imposte minori (ma non marginali). Gli oggetti di valore, essendo per lo più costituiti da beni non registrati (preziosi, oggetti di antiquariato, d’arte e da collezione) sfuggono dalla possibilità di poter essere tassati per il semplice fatto che, il fisco, non potrà mai tassare ciò di cui non ne conosce la collocazione e quindi la proprietà.
I fabbricati non residenziali e i terreni, sono anch’essi già tassati. Mentre gli impianti e i macchinari, attrezzature e avviamenti, rientrando prevalentemente nelle disponibilità delle imprese per l’esercizio delle proprie attività, non potrebbero essere tassati, poiché ciò graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile, con picchi del 70/75% o forse più.
Quindi, la parte di ricchezza effettivamente tassabile e che desta l’attenzione da parte del fisco è costituita dai 5 miliardi delle abitazioni. Va precisato che tale ricchezza, essendo astratta e non liquida, mal si presta ad essere tassata con un’imposizione patrimoniale straordinaria per il semplice fatto che, per il contribuente, possedere un patrimonio immobiliare (anche rilevante) non significa possedere di liquidità a sufficienza per poter pagare un’eventuale imposizione patrimoniale di carattere straordinario. Senza poi trascurare il fatto che una tassazione di questo genere, magari di qualche punto percentuale, farebbe precipitare anche il valore degli immobili e non è affatto detto possa esistere un mercato capace di assorbire l’offerta di immobili che potrebbero essere posti in vendita.
Anzi, stando l’attuale crisi economica, sembrerebbe proprio il contrario. Tuttavia, il rischio è quello che lo Stato possa intervenire su questa tipologia di ricchezza inasprendo il prelievo fiscale già esistente, magari rivalutando le rendite catastali o, molto più semplicemente, aumentando la percentuale di prelievo ai fini IMU, rendendo il prelievo strutturale, ossia ripetuto negli anni. Ma è evidente che questo avrebbe delle controindicazioni poiché rischierebbe di produrre effetti fortemente recessivi, stante la diminuzione del reddito disponibile delle famiglie per effetto della crisi. Quindi, per tali asset di ricchezza, appare del tutto limitata la possibilità, da parte dello stato, di ottenere un gettito superiore a quello ad oggi prodotto.
Anche se, a parer di chi scrive, si ravvisa l’opportunità di riformare le caratteristiche del prelievo IMU, riducendo o azzerando il prelievo sulle prime abitazioni, offrendo maggior progressività all’imposizione in ragione del valore del patrimonio immobiliare del contribuente, e scorporando dai valori imponibili le eventuali passività gravanti sulle proprietà immobiliari (mutui). Tuttavia, rilevata l’impossibilità di poter ottenere un gettito straordinario dalla ricchezza immobiliare, giova ricordare la bizzarra e fantasiosa imposta patrimoniale ipotizzata nell’estate del 2011 dall’ex Ragioniere Generale dello Stato Andrea Monorchio. Secondo quest’ultimo, in Italia, sarebbe auspicabile introdurre un imposta patrimoniale che consenta di garantire con beni reali il debito pubblico Italia. In altre parole e semplificando, si tratterebbe di introdurre un ipoteca forzosa sul patrimonio immobiliare insistente in Italia, e garantire le emissioni di particolari titoli di stato, con dei beni reali e quindi facilmente escutibili in caso di insolvenza da parte dello Stato. Da segnalare che, secondo l’idea di Monorchio, questi titoli sarebbero dovuti essere sottoscritti dalla BCE, in contrasto con tutti i trattati europei che vietano la monetizzazione del debito da parte della banca centrale. Niente male come idea, se non fosse che neanche un Paese bolscevico sarebbe capace di arrivare a tanto.
Veniamo, ora, alla ricchezza finanziaria quantificata in 3541 miliardi di euro, tentando di comprendere in che modo potrebbe essere interessata da un’eventuale imposizione patrimoniale.
In questa categoria di ricchezza sono ospitate un numero di attività che, l’analisi prodotta da Bankitalia, sostanzialmente, scompone in contanti (113,6 miliardi), depositi bancari (650,6 miliardi), risparmio postale (326,9 miliardi) e titoli (704,9 miliardi).
Molta materia imponibile da colpire con un’imposta patrimoniale feroce, si direbbe! Ma le cose non stanno esattamente in in questi termini, vediamo perché.
Prima di tutto occorre scomputare il denaro contante: tassare il contante, fino a quando questo rimane tale, è un esercizio impossibile da praticare. Non deve sorprendere, infatti, che buona parte del mondo politico, sarebbe favorevole ad una progressiva abolizione del denaro contante. Ciò perché, per obbligo normativo, questo, verrebbe depositato in banca e quindi diverrebbe individuabile da parte del fisco, facendo emergere materia imponibile da colpire, più o meno ferocemente.
Esistono inoltre altre categorie di attività che, sebbene parzialmente note al fisco, tassarle con un’imposizione patrimoniale, risulterebbe abbastanza difficile e soprattutto rischierebbe di fare più danni che altro. E’ il caso, ad esempio, dei crediti commerciali. Tassare un credito vantato da un’azienda, benché tecnicamente possibile – obbligando ogni impresa a rendere noti al fisco i rispettivi crediti commerciali attraverso apposita comunicazione – appare non ortodosso, oltreché distruttivo. E poi, è evidente che al credito di un’azienda, corrisponda un debito di un’altra azienda. Siccome sarebbe ragionevole attendersi che il credito possa essere scomputato dal debito, alla fine, la base imponibile sarebbe comunque limitata e un’eventuale imposizione patrimoniale, anche in questo caso, graverebbe sulle imprese che già scontano livelli di prelievo fiscale insostenibile, con picchi del 70/75% o forse più.
Discorso del tutto simile può essere osservato per le riserve assicurative. Anche queste potrebbero essere tassate, ma non senza difficoltà, contraddizioni, e non senza arrecare più danni che guadagni. L’applicazione di una imposta patrimoniale feroce, verosimilmente, andrebbe a colpire anche i fondi pensione e i fondi assicurativi, verso i quali un numero non del tutto indifferente di risparmiatori hanno riposto le speranze per ottenere l’integrazione pensionistica, al fine di integrare (o sostituire) la pensione erogata dai vari enti previdenziali. Sotto questo punto di vista, le scelte del governo volte all’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria, contrasterebbero con le politiche di welfare e con le varie riforme pensionistiche varate negli ultimi 10/15 anni, o forse più. Al riguardo, vale la pena ricordare che tali politiche hanno impresso uno stimolo allo sviluppo di forme pensionistiche alternative, capaci di integrare i flussi finanziari del risparmiatore in età pensionabile, al fine di arginare la progressiva diminuzione delle prestazioni garantite dai veri enti pensionistici. Non un problema da poco, direi.
Anche la ricchezza riconducibile alle partecipazioni in società di capitali non quotate (circa 420 miliardi di euro) o alle partecipazioni in società o quasi società (circa 205 miliardi di euro) è di difficile imposizione poiché, essendo questa una ricchezza riconducibile essenzialmente a partecipazioni in piccole società che non hanno una valutazione di mercato giornaliera (come invece avviene per le società quotate), oltre ad essere del tutto astratta, occorrerebbe definire un criterio attendibile di valutazione della partecipazione. Benché sia possibile effettuarlo per via amministrativa, il rischio è proprio quello di subire una valorizzazione arbitraria da parte dello Stato attraverso delle procedure che possano valorizzare determinati asset non in maniera pertinente. In sostanza, è un po’ come oggi avviene con gli studi di settore per la quantificazione dei redditi di impresa. E in anche in questo caso l’esperienza ci conferma quanto possano risultare arbitrarie e non pertinenti la determinazione del fisco. Inoltre, nel caso di imposte patrimoniali applicate ad imprese o aziende, c’è da dire che queste comporterebbero anche un’ulteriore abbattimento della competitività della imprese che, a quel punto, dovrebbero compensare la compressione di redditività patita con l’imposta applicata, attraverso un aumento di prezzi che le renderebbe ancor meno competitive, e aggravando una situazione già di per se critica.
Per il ragionamento sopra esposto, quindi, escludendo le componenti sopra descritte, la ricchezza che rimarrebbe rilevante ai fini di un imposizione patrimoniale, per lo più in forma liquida, sarebbe circa 2000 miliardi così desunti:
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A rigor di logica, da questo stock di ricchezza finanziaria così determinata, dovrebbero essere scomputate le passività che ammontano a circa 900 miliardi di euro, restituendo un imponibile tassabile di appena 1100 miliardi di euro. Riducendo la base imponibile da colpire, il pericolo è proprio quello che l’azione dello Stato, a parità di gettito atteso, possa concentrarsi su patrimoni molto più piccoli e quindi colpire in maniera indiscriminata anche una platea diffusa di piccoli risparmiatori. Infatti, tenuto conto che i depositi bancari e postali si avvicinano, già di loro, alla soglia dei 1000 miliardi, ciò significa che questi sono distribuiti su tutto l’universo dei risparmiatori italiani, piccoli compresi. Anzi, soprattutto piccoli; poiché è ragionevole attendersi che i grandi patrimoni (anche liquidi), con ogni probabilità, siano stati già collocati in sicurezza fuori dal perimetro nazionale. Senza considerare poi che, in Italia , vige (forse) un sistema di garanzia dei depositi di conto corrente fino a 100 mila euro, che dovrebbe quantomeno escludere prelievi straordinari fino a tali somme, riducendo ulteriormente la base imponibile da colpire. Ma su questo, personalmente, nutro qualche dubbio e comunque, dipende dagli obbiettivi di gettito prefissati dallo stato, e soprattutto dallo stato di bisogno.
Pensare che con un’imposizione patrimoniale straordinaria possa ottenersi un gettito di 400/500 miliardi di euro come quanto auspicato da “autorevoli” commentatori, appare del tutto irrealistico, oltreché destabilizzante per uno stato di diritto, ove la proprietà privata e la tutela del risparmio è anche garantita costituzionalmente. Ma ciò non toglie che questo patrimonio possa essere comunque esposto al rischio di qualche forma di imposizione patrimoniale o, peggio, confisca.
Gli investimenti finanziari (ossia in titoli di stato, fondi comuni, azioni ecc) per loro natura, si prestano ad essere colpiti con maggiore attitudine rispetto ad altre tipologie di asset. Ma anche in questo caso, l’applicazione di una imposta patrimoniale straordinaria fortemente invasiva in termini di prelievo fiscale, rischierebbe di produrre più danni che guadagni. Pensiamo, ad esempio, ad un pacchetto di azioni detenute da un risparmiatore, supponiamo per 100.000 euro, e che vengano colpite da un imposta straordinaria di qualche punto percentuale. In questo caso, se il risparmiatore non dovesse disporre di liquidità sufficiente per provvedere al pagamento dell’imposta, egli sarebbe costretto a liquidare parte del proprio investimento al fine di ottenere le risorse necessarie per provvedere al pagamento dell’imposizione tributaria. Questo, se effettuato su scala rilevante, determinerebbe pericolose distorsioni di mercato. Si pensi, ad esempio, alla caduta dei prezzi che si potrebbero determinare su un titolo: il risparmiatore ne risulterebbe doppiamente penalizzato poiché, oltre a subire una diminuzione del patrimonio per effetto dell’imposizione fiscale, subirebbe anche il deprezzamento del proprio portafoglio titoli per effetto delle vendite sui titoli. Questo appare tanto più vero nel nostro mercato finanziario, il quale, essendo di modeste dimensioni, risulta particolarmente esposto alla possibilità di variazione di prezzi anche con capitali relativamente esigui. Inoltre, ciò rischierebbe di avvantaggiare investitori stranieri (quindi esenti da imposta), che in quest’ultimo caso, potrebbero acquistare pacchetti azionari a buon mercato per effetto della depressione dei prezzi causata da una patrimoniale feroce. Evidentemente. le conseguenze nefaste non si esaurirebbero con le casistiche appena descritte, ma andrebbe ben oltre.
Discorso analogo potrebbe essere effettuato per le obbligazioni societarie (soprattutto bancarie) o con i titoli di stato LETTURA SUGGERITA. Ma, in quest’ultimo caso, occorre effettuare qualche ulteriore ragionamento in virtù del fatto che, il titolo di stato, essendo un debito dello Stato che si vorrebbe abbattere proprio attraverso l’imposizione patrimoniale straordinaria, lo Stato potrebbe essere tentato di operare una compensazione tra il suo credito derivante dall’imposizione tributaria e il suo debito rappresentato dal titolo di Stato nel portafoglio del risparmiatore. In altre parole, in questo caso, laddove non si dispongano di risorse necessarie per poter corrispondere l’imposizione tributaria, lo Stato potrebbe effettuare una compensazione tra il proprio credito (imposta patrimoniale) e il proprio debito (titolo di stato), diminuendone o azzerandone gli interessi previsti o, nei casi più “estremi”, decurtandone il capitale alla scadenza del titolo. In buona sostanza, un default mascherato da una patrimoniale.
Concludendo, le classi di attività che si prestano ad essere colpite con maggior attitudine, anche con imposizioni feroci, sono proprio quelle liquide (ad esempio depositi bancari, di conto corrente, o postali), poiché aggredire tali patrimoni costituisce, per lo stato, garanzia sulla celerità e sul buon esito della pretesa tributaria. In tal senso, anche quelle attività in cui lo stato risulta essere debitore (titoli di stato) si prestano con particolare attitudine a soddisfare le proprie esigenze, in quanto, lo stato, potrebbe agevolmente compensare la sua posizione debitoria con il credito emerso per effetto dell’imposizione fiscale.
Analogo discorso può essere osservato per le obbligazioni bancarie, le quali, anche per via normativa, potrebbero essere sottoposte ad un haircut al fine di obbligare il risparmiatore (investitore) a contribuire al salvataggio di qualche banca di medie grandi dimensioni che potrebbe trovarsi in stato di difficoltà. Cipro insegna.
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