Economia

Economisti: svalutare euro del 30% per isolare frau Merkel

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Di Laura Naka Antonelli e Daniele Chicca

NEW YORK (WSI) – A Washington lo scorso fine settimana Mario Draghi ha ancora una volta resistito alle pressioni del Fondo Monetario Internazionale e del Tesoro statunitense, che hanno esortato il numero uno della Banca Centrale Europea a fare di piu’ per scongiurare un disastro economico in Europa, minacciata da debito privato e pubblico insostenibili.

Ma secondo un pool di economisti d’eccellenza interpellati da Wall Street Italia, dal momento che le misure di austerity hanno fallito, bisogna dare piu’ potere al banchiere fiorentino, il quale deve agire al piu’ presto per ridare fiato all’economia. Come? Riducendo il valore della moneta unica e finanziando i debiti pubblici, non il sistema malato delle banche. Su questo sostanzialmente tutti, fatta eccezione per uno, concordano, mentre la differenza di pareri interessa la portata del taglio. Solo due economisti su nove sono entusiasti ‘in toto’ all’idea di portare sulla parita’ euro e dollaro. Quello che si chiede in coro alle autorita’ e’ un allentamento monetario per favorire l’export e alimentare l’inflazione, riducendo di conseguenza lo stock del debito.

Sebbene svalutare l’euro del 30% sia un’operazione difficile che lascia scettici molti economisti, in quanto avrebbe una distribuzione dei costi (contro) e dei benefici (pro) estramente diseguale all’interno dell’area euro, in questo modo si metterebbe all’angolo la Germania e si porrebbe al contempo rimedio a “quella follia che ha portato alla creazione di una moneta unica prima di creare una vera unita’ politica europea”, come osserva un analista. L’intervento e’ difficilmente attuabile anche per colpa dell’opposizione di Usa e stati emergenti. Non a caso nell’ultimo anno il tasso di cambio e’ rimasto sostanzialmente stabile.

Ma l’euro a $1,30 e’ poco per i paesi forti (la Germania avrebbe bisogno di un euro ancora piu’ forte) e troppo per i paesi deboli. Bisogna al piu’ presto dotare Draghi di piu’ armi, perche’ il banchiere intraprenda misure di politica monetaria di ampia portata, che abbiano l’obiettivo di sgonfiare la mega bolla da migliaia di miliardi di euro di debiti tossici che ci sta strozzando.

Da una svalutazione cospicua del 30% trarrebbe immediatamente vantaggio il 40% delle attivita’ di export europeo verso l’estero (oltre il 60% delle esportazioni avviene invece all’interno del continente). Su altre componenti dell’economia, tuttavia, si rischia che l’effetto non sia benefico. L’Italia, per tornare competitiva sul lungo termine, dovrebbe puntare piuttosto a una riduzione dei costi di produzione, stando all’opinione del gruppo di analisti d’eccellenza.

Peraltro per svalutare la divisa unica, che al momento scambia a 1,32 dollari, una riduzione dei tassi e una conseguente svalutazione da sole non bastano. Per stimolare le attivita’ economiche servono misure politiche coordinate, come “l’innalzamento del tetto del deficit dal 3% al 6-8%”, come indicato da Warren Mosler. Secondo l’economista e gestore di fondi Usa, “nuovi finanziamenti al sistema da parte della Bce, accompagnati dal giusto livello di spese pubbliche”, possono essere le misure vincenti per rilanciare la crescita. “Crescita”. Una parola tabu’ per le autorita’, che finalmente Draghi ha avuto il coraggio di pronunciare, specificando che in tempi di recessione “con le tasse non si cresce”.

Da un deprezzamento della moneta, alla lunga, trarrebbero vantaggio economico soprattutto quei paesi piu’ forti dell’Europa, che vantano cospicui attivi della bilancia commerciale. Anche perche’ il problema di competitivita’ dell’Italia, come sottolinea l’economista e filosofo svizzero Christian Marazzi, e’ soprattutto all’interno dell’Europa.

Premesso che una svalutazione del 30% e’ difficile da attuare e non sembra nei piani delle autorita’ monetarie per i prossimi tempi, “a fine anno il divario tra la crescita tedesca e la altrui recessione si sara’ aggravata”, come sottolinea Giacomo Vaciago, docente di Politica Economica all’Universita’ Cattolica di Milano. Per questo motivo bisogna intervenire, e in fretta. Anche finanziando i debiti pubblici, che con l’eventuale inflazione innescata dal deprezzamento dell’euro si ridurebbero di dimensioni.

Mentre il deficit calava, l’indebitamento pubblico netto dell’Eurozona e’ salito nettamente, con un aumento all’87,2% del Pil, dall’85,3% dell’anno precedente.

L’istituto di Francoforte ha iniettato mille miliardi di euro di nuova liquidita’ nel sistema bancario, con l’obiettivo di placare la tensione dei titoli di stato e alleviare i patemi delle banche. L’effetto e’ durato appena quattro mesi e lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi e’ tornato sopra i 400 punti base, mentre il rendimento del decennale spagnolo ha sforato il 6%.

Draghi ha anche tagliato i tassi ai minimi storici, portandoli all’1%. Secondo Draghi, Spagna e Italia hanno bisogno di adottare nuove misure di rilancio, mentre per il premier iberico Mariano Rajoy e’ la Bce che deve intervenire riattivando il programma di acquisto di bond. Secondo gli economisti, la Bce dovrebbe piuttosto svalutare l’euro e finanziare il debito pubblico. “La storia dimostra che i debiti pubblici non si eliminano con le misure di austerity, ma con la creazione di inflazione”, come ricorda Giulio Sapelli, storico di economia alla Statale di Milano.

LA SESSIONE DOMANDA E RISPOSTA CON GLI ECONOMISTI

1) Quali sono i PRO di una svalutazione del 30% in modo che eur/usd scenda a 1 a 1, con tutte le possibili conseguenze per l’Europa e in particolare per l’Italia (nel dettaglio: pil, produttivita’, debito pubblico, btp, export, stipendi, mercato immobiliare, consumi, materie prime e benzina, etc)

2) Quali sono i CONTRO di una svalutazione del 30% in modo che eur/usd scenda a 1 a 1, con tutte le possibili conseguenze per l’Europa e in particolare per l’Italia (nel dettaglio: pil, produttivita’, debito pubblico, btp, export, stipendi, mercato immobiliare, consumi, materie prime e benzina, etc)

Giacomo Vaciago, docente di Politica Economica e direttore dell’Istituto di Economia e Finanza nell’Universita’ Cattolica di Milano.

Il cambio dollaro/euro e’ rimasto in questi anni in un range molto stretto, intorno a 1,30, il che e’ poco per i paesi forti (la Germania avrebbe bisogno di un euro piu’ forte) e troppo per i paesi deboli (1,00 o meno e’ cio’ che servirebbe a Spagna e Italia). Quindi la svalutazione del 30% ipotizzata avrebbe una distribuzione dei costi (contro) e dei benefici (pro) molto diseguale: non a caso, non e’ cio’ che i mercati hanno prodotto. Anche quando la BCE ha fatto il suo “quantitative easing”, l’euro non si e’ granche’ indebolito. In altre parole, l’ipotizzata svalutazione e’ difficile da attuare e non la prevedo per i prossimi tempi, anche se a fine anno il divario tra la crescita tedesca e la altrui recessione si sara’ aggravata.

Warren Mosler, economista e gestore di fondi americano, autore di punta della Modern Monetary Theory.

La Bce puo’ facilitare i finanziamenti degli stati membri a tassi di interesse vantaggiosi, indipendentemente dai mercati. Tuttavia, questo non cambierebbe il valore della moneta unica. Quello che puo’ modificarne il valore e’ l’ammontare di spese pubbliche consentito. Se agli interventi di liquidita’ della Bce si abbina il giusto livello di spese di deficit permesse ai paesi membri, allora si puo’ sostenere la crescita.

Andrea Fumagalli, docente di economia presso l’Università di Pavia.

E’ chiaro che una svalutazione dell’euro fino a raggiungere la parità sul dollaro avrebbe effetti benefici sulle esportazioni europee, fermo restando che il rapporto dollaro/yuan rimanga stabile. Dobbiamo però anche ricordare che gli effetti sul Pil sia europeo sia, nel caso specifico italiano, potrebbero deludere le aspettative di chi è a favore del deprezzamento della valuta, in quanto oltre il 60% delle esportazioni europee avviene all’interno della stessa Europa. Detto questo, è ovvio che la restante quota del 40% circa degli scambi commerciali, ovviamente, ne trarrebbe vantaggio: aumenterebbero le esportazioni verso il Sud est asiatico, il Nord e il Sud America (a patto che altri tassi di cambio, ripeto, rimangano stabili).

D’altro canto, gli effetti su altre componenti del Pil a parte le esportazioni sarebbero più negativi che positivi. Prendiamo il caso Italia: un deprezzamento dell’euro si tradurrebbe in un aumento dei prezzi e del potere di acquisto con conseguenze negative sulla domanda interna; non solo. I prezzi in euro per acquistare materie prime e benzina salirebbero, e dunque il deprezzamento della moneta unica avrebbe un effetto inflattivo. Sulla produttività, l’effetto sarebbe irrisorio perchè il problema della produttività in Italia è legato a fattori endogeni, come la carenza di ricerca e sviluppo, la soluzione dei quali non vede chiamato in causa l’euro. Una conseguenza particolarmente negativa potrebbe abbattersi sul debito,in particolare sulla spesa per interessi in Italia. Una svalutazione dell’euro potrebbe portare infatti gli speculatori a maturare aspettative ancora più negative sull’Eurozona e sul suo futuro, e dunque a smobilizzare i BTP facendone salire i tassi di interesse.

Riguardo al ruolo della Bce, ritengo che l’istituto potrebbe fare molto di più per risollevare le sorti europee: non tanto iniettare liquidità alle banche come ha fatto fino a ora, ma finanziarie il debito pubblico dei paesi acquistando titoli di stato diettamente sul mercato primario. La sua funzione dovrebbe essere insomma quella di prestatore di ultima istanza.

Giulio Sapelli, storico dell’economia alla Statale di Milano e ricercatore emerito presso la Fondazione Eni Enrico Mattei.

Una svalutazione dell’euro che portasse la moneta unica a testare la parità nei confronti del dollaro sarebbe un risultato “molto auspicabile”, che mi vede totalmente a favore, in un contesto in cui il “Quarto Reich della Germania” (in senso benevolo, lo preciso) sta portando al collasso non solo l’economia ma la stessa politica europea (vedi le tendenze di estrema destra e anti-europeiste in atto in Olanda). Uno scenario del genere (forse non una parità, ma sicuramente una svalutazione della moneta) sarebbe anche possibile nel caso in cui le sinistre vincessero le prossime elezioni (per esempio Hollande in Francia), in quanto a quel punto la Germania rimarrebbe isolata e i nuovi governi, che hanno capito che la politica di austerity non funziona, si muoverebbero il prima possibile per cambiare lo statuto della Bce: permettendole dunque di fare di più per sostenere l’economia europea. Si potrebbe così porre riparo a quella follia che ha portato alla creazione di una moneta unica prima di creare una unità politica europea, follia partorita dall’illusione monetarista dei neoclassici.

Detto questo, la svalutazione dell’euro sul Pil sarebbe positiva soprattutto per l’Europa del Sud, in quanto rilancerebbe l’industria europea e dunque le esportazioni. Riguardo ai presunti effetti negativi che potrebbe avere sulla domanda interna non sono convinto: un deprezzamento della moneta diminuirebbe infatti il potere di acquisto, ma solo riguardo alla merce importata, non di quella prodotta in Italia. Sul fronte debito pubblico, l’effetto potrebbe presentare due facce: il fenomeno inflattivo che una svalutazione dell’euro creerebbe aiuterebbe sicuramente a ridurre lo stock di debito, visto che la storia dimostra che i debiti pubblici non si eliminano con le misure di austerity ma con la creazione di inflazione.

Inoltre, i debiti in quanto percentuale del Pil scenderebbero visto che il Pil, denominatore del rapporto, salirebbe. Allo stesso tempo, la storia mostra anche che ogni volta che ci sono state svalutazioni e inflazioni i tassi sui titoli di stato sono saliti. E’ poco chiaro dunque l’effetto sui tassi sui BTP. Concludendo, sono comunque molto favorevole a uno scenario del genere perchè con questa politica di austerity non si può andare più avanti ed è giusto che la Bce abbia più poteri.

Christian Marazzi, economista e filosofo svizzero, insegna all’Universita’ di scienze applicate della Svizzera italiana.

Nell’ultimo anno il tasso di cambio tra euro e dollaro è stato relativamente stabile. Questo fenomeno è probabilmente da ascrivere a due fattori: il primo è che non vi è stata una fuga di capitali dall’area euro verso l’area dollaro. La crisi dell’euro ha invece spinto a un movimento di capitali all’interno dell’Europa dai paesi deboli ai paesi forti. Questo fatto è dimostrato anche dai bassi rendimenti dei bund tedeschi. Il secondo fattore è che probabilmente questo tasso di cambio è pilotato politicamente. Sia la Fed sia la Bce non vogliono che vi siano strappi che possano ingenerare conseguenze negative sui flussi commerciali internazionali.

In altri termini, è probabile che gli Stati Uniti non vogliano un indebolimento dell’euro che metterebbe a repentaglio i tentativi americani di rilanciare l’economia. Altrettanto vale probabilmente per i grandi paesi emergenti le cui valute sono agganciate attraverso un tasso di cambio fisso al dollaro. Questi paesi emergenti stanno già soffrendo della recessione di una parte dell’Europa. I tassi di crescita di India e Cina stanno diminuendo e il Brasile sembra già in recessione. Brasilia addirittura accusa i paesi ricchi di aver spinto al rialzo la propria valuta conducendo una vera e propria guerra commerciale.

Dunque si può dire che la debolezza dell’economia europea sta già avendo una crescente influenza sui tassi di crescita dell’economia mondiale. Una ulteriore svalutazione dell’euro rispetto al dollaro accentuerebbe questo fenomeno. Non è certo, anzi è molto improbabile, che in un quadro di debolezza generale, il guadagno di competitività dell’economia europea si tradurrebbe in un corrispondente effetto di stimolo per il vecchio continente. E’ invece probabile che l’aumento dell’export europeo e la diminuzione dell’import europeo abbiano un effetto recessivo sull’economia internazionale.

Per quanto riguarda l’Italia, il guadagno di competitività dovrebbe avvenire soprattutto nei confronti degli altri paesi europei, Germania in testa. Una svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro non migliorerebbe di molto la posizione relativa dell’economia italiana. Infatti, da un deprezzamento della moneta unica trarrebbero vantaggio soprattutto i paesi forti dell’Europa che già vantano cospicui attivi della bilancia commerciale. Il problema di competitività dell’Italia è soprattutto all’interno dell’Europa. Quindi, fino a quando esisterà l’euro il recupero di competitività potrà essere attuato solo riducendo i costi di produzione italiani più di quanto faranno i paesi forti dell’Europa.

Gli aspetti negativi di una svalutazione riguardano gli effetti sui movimenti dei capitali. Infatti, una svalutazione del 30% dell’euro vorrebbe dire una rarefazione degli afflussi di capitali stranieri in Europa. Potrebbe anche voler dire una fuga dei capitali stranieri dall’Europa. Ciò implicherebbe inevitabilmente un acuirsi della crisi dei debiti sovrani e probabilmente anche delle difficoltà del sistema bancario europeo, che dovrebbe pagare tassi più alti per rifornirsi di liquidità.

Alec Young, global equity strategist, S&P Capital IQ.

L’impatto maggiore si verificherà negli scambi commerciali. L’effetto sarebbe addirittura amplificato per la Germania, il più competitivo tra i mercati europei. Ma ci saranno effetti benevoli anche per la periferia, dunque anche per Italia e Spagna. Il vero problema è che questa svalutazione andrebbe riversarsi sulla crescita dei prezzi, perché i beni che gli europei comprano dall’estero diventeranno più costosi. Per cui ci saranno effetti benevoli e altri nocivi. Aiuterebbe a stimolare la crescita economia dell’Area unica, dando una spinta alle esportazioni (attraverso maggiore competitività nei mercati internazionali, ndr), ma allo stesso tempo si pensi all’impatto negativo che un cambio eurodollaro sulla parità avrebbe per i mercati globali.

Questo deprezzamento verrebbe infatti inteso come un forte segnale di stress in Europa, che andrebbe a ripercuotersi in maniera catastrofica nel sistema finanziario, andando a colpire l’intera crescita e stabilità globale. Senza parlare dell’impatto negativo che questo avrebbe per le esportazioni europee, si pensi a quanto in alto potrebbero schizzare i rendimenti dei bond della periferia europea, tra cui Italia e Spagna. Sono già alti, ma nuovi segnali di stress potrebbero farli salire ulteriormente. Credo che l’impatto positivo sulle esportazioni alla fine dei giochi possa essere soprafatto dai segnali negativi di questo cambiamento. Un forte indicatore dei problemi nella quale imperversa l’Europa. Sarebbe il panico e potrebbe accadere qualcosa in stile 2008.

Philip Poole, Global Head of Macro & Investment Strategy, HSBC Global Asset Management.

Il deprezzamento dell’euro contribuirebbe a migliorare la competitività delle esportazioni dell’Eurozona, ma aumenterebbe anche il costo (in euro) delle importazioni. Al netto, questo dovrebbe in teoria portare a un miglioramento delle esportazioni nette (export – import).

Il problema è che la maggior parte degli scambi commerciali dei paesi Ue è con gli stessi paesi membri (circa i due terzi) e quindi l’effetto sarebbe diluito ad appena un terzo delle esportazioni. Si consideri inoltre, che i settori con beni e servizi non commerciabili sui mercati internazionali (non-tradable sectors) rappresentano gran parte dell’attività produttiva dell’eurozona, come d’altronde per la maggior parte dei paesi industrializzati.

Nello specifico per l’Italia il problema è simile, tranne per il fatto che qui la quota delle esportazioni che finiscono nei mercati europei è leggermente inferiore alla media (60%).

D’altro canto, un deprezzamento dell’euro farebbe salire il costo delle importazioni per l’Eurozona. Questo può aiutare a stimolare l’economia creando nuove attività in sostituzione alle importazioni, ma solo per quei prodotti con domanda elastica (la quale richiesta diminuirebbe in funzione del prezzo, ndr). Le importazioni di materie prime, soprattutto quelle energetiche, sono piuttosto rigide (i paesi dell’Eurozona sono importatori netti di materie prime, incluso il petrolio) e un aumento del prezzo espresso in euro, scatenato da questo deprezzamento, porterebbe, a parità di condizioni, a un deterioramento nel conto delle partite correnti nella bilancia dei pagamenti.

Questa svalutazione porterebbe a un aumento del prezzo dei beni importati (ad esempio del petrolio, visto che il prezzo è espresso in dollari USA), il che tenderebbe a spingere al rialzo l’inflazione della zona euro. Il reddito disponibile tenderebbe a diminuire e questo porterebbe a una minore spesa per altri beni e servizi, il tutto in un circolo vizioso che spianerà ulteriormente la strada a un deterioramento della crescita economica.

Mark Willis, Italy analyst e associate economist per Roubini Global Economics.

A conti fatti un euro più debole sarebbe sicuramente positivo per l’Italia e l’Eurozona in generale. Con il processo di risanamento dei conti pubblici attualmente in corso (in maniera più evidente nella periferia) un euro più debole aumenterebbe la competitività della produzione europea e la crescita delle esportazioni – assolutamente necessaria per contrastare il calo della domanda interna.

Anche se, ad eccezione dell’Irlanda, le esportazioni dalla periferia dell’Eurozona (Italia compresa) sono prevalentemente destinate verso altri paesi membri o che legano le loro valute all’euro (quindi riducendo l’impatto diretto di un euro svalutato sui loro settori di esportazione), il tutto andrebbe a beneficio e avrebbe un impatto positivo in Europa, con l’aumento della domanda di esportazioni che andrebbe a stimolare la domanda interna. Ne seguirebbe un circolo virtuoso.

Le esportazioni italiane sono piuttosto sensibili al prezzo. Pertanto, rispetto a Spagna, Portogallo e Grecia, l’Italia trarrebbe davvero tanti benefici da una moneta debole.

Andando ad analizzare l’impatto inflazionistico di un euro più debole, si consideri che la domanda interna è già debole e pertanto gli effetti negativi sarebbero limitati. L’inflazione in Europa è attualmente guidata dai costi elevati delle materie prime e dai prezzi dell’energia, non da richieste di salari più elevati. Visto l’alto tasso di disoccupazione e il suo continuo aumento, non c’è pericolo che questo porterebbe a una richiesta di salari superiori.

Lidia Undiemi, economista di Wall Street Italia.

In questo contesto, anche la riduzione dei tassi di interesse si rivela uno strumento insufficiente per risollevare le sorti di una economia reale indifesa. Ciò è dimostrato anche dai deboli risultati prodotti dalla politica monetaria espansiva statunitense: liquidità non significa necessariamente crescita.

GUARDA L’INTERVENTO con il quale Luca Ciarrocca, direttore di Wall Street Italia e fondatore del movimento politico Indipendenti, chiede a Mario Draghi di svalutare l’euro, come soluzione a breve per ridare fiato a un’Europa depressa e per evitare che la gente – soprattutto nel nostro Paese – soffra per misure di austerita’ recessive:

Ha collaborato Narciso Podda

Per contattare l’autore: Twitter @neroarcobaleno