MILANO (WSI) – Il 14 ottobre 1806 Napoleone, poche ore prima della battaglia che lo vedrà trionfatore, passa a cavallo, in ricognizione, per le strade di Jena. Hegel lo scorge dalla finestra, si emoziona e ha una visione. Sotto casa sua, pensa, sta passando lo Spirito del Mondo e si sta realizzando la fine della Storia.
Che cos’è infatti la storia umana se non una sequenza di conflitti ideali, politici e militari? Napoleone sta ponendo fine a tutto questo. Fra poco regnerà sul mondo la pace universale e perpetua nel nome degli ideali rivoluzionari e la storia avrà finalmente fine.
Hegel, a Jena, stava completando la Fenomenologia dello Spirito. Su questo testo, letto attraverso lenti marxiane e heideggeriane, Alexandre Kojève tiene alla Sorbona, dal 1933 al 1939, una serie di seguitissimi seminari che resteranno memorabili. Tra i suoi allievi ci sono Sartre, Bataille, Lacan, Aron e Merleau-Ponty. Kojève, alla vigilia di una guerra che devasterà l’Europa, ha la lucidità di vedere lontano.
Il processo storico universale, che ha prodotto il capitalismo e il socialismo, sta per concludersi in una sintesi unitaria che li supererà entrambi. In questo contesto riconciliato il conflitto non avrà più senso perché il mondo sarà deideologizzato e sarà governato da un’unica tecnocrazia benevola e sovranazionale, che permetterà agli uomini emancipati dal bisogno di dedicarsi all’arte, all’amore e alla felicità.
Personaggio affascinante, inquietante e a tratti tenebroso, Kojève, un russo francesizzato nipote di Kandinskij, prende appunti in sanscrito e parla in tibetano. Ammira Stalin e lo aiuterà per 30 anni come agente di altissimo bordo del KGB. Non lo farà nello spirito romantico alla le Carré dei giovani comunisti occidentali degli anni Trenta che diventano spie del Cremlino, ma considerando Stalin come una specie di allievo al quale insegnare come funziona il mondo.
Durante la guerra, nella Resistenza, Kojève stringe un rapporto molto stretto con il suo superiore militare, Jean Monnet. Visionario irrequieto e dotato di straordinaria energia, Monnet, piantati gli studi a 16 anni, si propone ai politici di mezza Europa con il suo progetto di unificazione surrettizia e nascosta del continente.
Cominciamo con l’unificazione economica, dice, creiamo una tecnocrazia comune e tutto il resto verrà da sé e l’unità politica arriverà per ultima.
Finita la guerra, de Gaulle adotta Kojève e Monnet e li pone alla testa della delegazione francese nelle nascenti istituzioni europee, da loro due disegnate e proposte. Kojève e Monnet usano de Gaulle e la forza politica della Francia per il loro disegno tecnocratico. De Gaulle, che è un nazionalista e non un tecnocrate, usa i due per la loro abilità di inventare soluzioni che massimizzino i benefici per la Francia a spese della Germania.
La mitica comunità del carbone e dell’acciaio, embrione dell’Unione Europea e, più tardi, la politica agricola comunitaria sono invenzioni di Kojève e di Monnet che costeranno una montagna di soldi alla Germania e li trasferiranno alla Francia. Adenauer, in cambio, verrà santificato e collocato nel pantheon dei padri fondatori dell’Europa.
Nel 1989, quando cade il Muro e nasce l’euro, Kojève e Monnet non ci sono più, ma le loro due idee di fondo, l’eurocrazia tecnocratica e il contenimento francese della Germania, continuano a spiegare perfettamente tutto quello che succede in Europa fino a oggi e che succederà ancora nel futuro.
L’euro nasce in fretta come idea francese, senza la minima consultazione popolare, per imbrigliare la Germania riunificata in un’unione più ampia. Questa unione dovrà diventare politica e, in particolare, dovrà diventare un’unione dei trasferimenti in cui i soldi tedeschi affluiranno copiosi (e questa volta per sempre) agli altri paesi, Francia in testa.
Altiero Spinelli disse una volta che l’Europa unita deve tutto a Monnet, incluso il fatto di essere nata sbagliata. Spinelli aveva in mente una costituente europea sul modello di quella americana e un impianto democratico, non tecnocratico. Spinelli perse, Kojève e Monnet vinsero.
I popoli, come insegna l’esperienza cinese, accettano volentieri forme ridotte di democrazia e sovranità finché viene dato loro in cambio un benessere crescente. Le elezioni italiane mostrano che nel momento in cui questo benessere non è più percepito l’accettazione del patto politico europeo inizia a venire meno.
Il malcontento si indirizza verso la Germania e non verso l’eurocrazia perché in questi ultimi anni la Germania, capendo che si sta avvicinando il momento di non ritorno in cui dovrà iniziare a trasferire enormi risorse al resto del continente, ha cercato di alzare il prezzo della sua resa imponendo ai partner un risanamento strutturale. Questo risanamento, indebolendo i partner, li ha resi ancora più dipendenti dalla Germania ma ha leso in modo grave il consenso di tutti, tedeschi e non tedeschi, al progetto comune.
Non solo l’Europa è costruita male, ma anche l’euro. Un’area valutaria ottimale è definita da quattro criteri, ovvero mobilità del lavoro, mobilità dei capitali e flessibilità dei salari, trasferimenti fiscali automatici redistributivi e simultaneità dei cicli economici tra i paesi dell’area.
La mobilità del lavoro c’è sulla carta, ma non c’è in pratica. I capitali sono stati fin troppo mobili negli anni scorsi e ora lo sono troppo poco. La flessibilità dei salari è quasi inesistente. I trasferimenti automatici, che in un’area che funziona dovrebbero essere temporanei, al momento non esistono e, quando ci saranno, avranno natura permanente. La simultaneità del ciclo è completamente saltata.
I politici europei, a questo punto, si trovano in mezzo al guado in una posizione molto scomoda che solo la Merkel ha qualche interesse a prolungare per mantenere il consenso elettorale di cui gode. Il rischio del rinvio dell’unione dei trasferimenti è che il costo per la Germania diventi alla fine sempre più alto.
La progressione del debito pubblico dell’Eurozona è stata rallentata con enorme fatica, ma la mancanza di crescita economica e la crisi di consenso rischiano da un momento all’altro di farla riesplodere.
L’estrema delicatezza del momento sta già inducendo la Germania ad allentare vistosamente la pressione sui partner. La Spagna ha potuto produrre a consuntivo un disavanzo 2012 superiore al 10 per cento e da Berlino sono arrivate solo espressioni di incoraggiamento e fiducia.
Gli obiettivi 2013 verranno mancati in tutta l’Eurozona, lo si sa già e ci si volta dall’altra parte. Ai tempi di Theo Waigel il disavanzo doveva essere sotto il famoso tre-punto-zero sia in tempi di boom sia in tempi di carestia.
Oggi si è adottato il disavanzo strutturale, che è l’equivalente per gli stati dei fantastici modelli di Basilea 2 che le banche usano per valorizzare i loro titoli ai prezzi che preferiscono. Se avessimo le ruote saremmo tutti dei tram e andremmo anche velocissimi. Il caso vuole che le ruote non le abbiamo, ma non fa niente.
Anche la Bce si appresta a tornare in campo. Per ora lo fa con un discorso di Draghi che richiama nei toni aggressivi quello storico di luglio. In caso di richiesta, è lecito supporre, l’Omt verrà concesso a qualsiasi governo italiano a condizione che abbia la cortesia di non dichiarare esplicitamente che mancherà gli obiettivi concordati da tempo con Bruxelles. Bernanke sta già facendo la sua parte dissipando ogni dubbio sulla durata del Qe.
Giappone e Inghilterra si daranno da fare e la Cina, sempre terrorizzata dall’Europa, toglierà subito, verosimilmente, quel piede che stava iniziando a posare dolcemente sul freno per paura di un riavvio dell’inflazione immobiliare.
In pratica il mondo comprerà altro tempo con nuove ulteriori dosi di analgesici monetari e, in Europa, anche fiscali.
La crisi italiana ha la sfortuna di coincidere con un rally ormai maturo delle borse e con l’imminenza dei tagli automatici di bilancio in America. Ha però la fortuna di avvenire in un contesto monetario ultraespansivo e in un mondo così fragile da non potersi nemmeno permettere una correzione dei mercati.
Grillo rischia dunque di prolungare il rialzo globale degli asset finanziari. I mercati, in questi nove mesi, hanno digerito anche i sassi (si pensi al fiscal cliff) e ora sembrano in grado di digerire anche lui.
Al fondo resta però il tema della fragilità estrema dell’Italia e dell’Europa, quella fragilità che, come ha notato giustamente Buiter nelle settimane scorse, pensiamo ogni volta superata e che si ripresenta ogni volta puntuale. E continuerà a farlo perché, come abbiamo visto, è strutturale.
Quanto al sequester, l’impatto per il 2013 è stimato in 85 miliardi. Il caso vuole che di 85 miliardi sia anche l’importo dei titoli che la Fed acquista ogni mese in base al suo programma di Quantitative easing. Il moltiplicatore non è lo stesso, stiamo paragonando le pere con le mele, ma che per una mela in meno all’anno ci sia una pera in più al mese vorrà pure dire qualcosa.
In queste ore abbiamo assistito nei mercati a un alternarsi o addirittura a un convivere di atteggiamenti di forte preoccupazione per l’Italia e inviti a profittare della bella occasione di comprare a sconto sulla correzione. A noi viene da suggerire di non muoversi troppo e di tenere l’Italia che si ha in portafoglio senza aggiungerne dell’altra. I Btp sono scesi di poche figure e non hanno raggiunto quei livelli di sconto più profondo che potrebbero giustificare altri acquisti. La crisi politica italiana avrà tempi lunghi. Quanto all’euro, saremmo venditori su rimbalzo.
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