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Europa, due opzioni: D come Default, E come Eurobond

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Bruxelles. I negoziati che hanno preceduto il vertice straordinario della zona euro di domani, con l’obiettivo di salvare nuovamente la Grecia per salvare tutta la moneta unica, confermano l’improvvisazione dei leader europei nel fronteggiare la crisi del debito sovrano. Quello che era un piccolo problema gestibile e circoscrivibile – la possibile ristrutturazione del debito di un paese che conta per meno del 3 per cento del pil dell’area euro – si è trasformato in una crisi sistemica, che mette in dubbio la sopravvivenza stessa dell’unione monetaria.

Dal febbraio 2010, quando scoppiò l’emergenza del debito greco, i responsabili politici sono andati avanti a tentativi, tra divisioni sui dettagli tecnici e accordi su soluzioni provvisorie. “Kicking the can down the road”, dicono gli inglesi. Tradotto: mettere una pezza e rinviare le decisioni risolutive, ben sapendo che il problema in futuro rischia di aggravarsi, ma cullandosi nella speranza di un miracolo. Ieri la cancelliera Angela Merkel ha ribadito che la Germania al vertice “non cederà” a una soluzione “spettacolare” come “la ristrutturazione del debito, gli Eurobond, l’unione dei trasferimenti”.

Ma, a forza di mezze misure, gli investitori hanno perso la fiducia nella politica che vende loro i titoli di stato. E da quando Spagna e Italia sono finite nella tormenta, con tassi di interesse sul debito troppo alti per essere sostenibili, i mercati ritengono che le soluzioni si siano sostanzialmente ridotte a due: il piano D come Default, che segnerebbe la fine della zona euro; oppure il piano E come Eurobond, che trasformerebbe l’unione monetaria in un’unione fiscale.

Nella notte tra il 9 e 10 maggio dello scorso anno, quando i ministri delle Finanze della zona euro lanciarono il primo salvataggio della Grecia, la pezza venne trovata all’ultima ora utile prima della riapertura dei mercati asiatici. Un anonimo funzionario del ministero delle Finanze olandese tirò fuori dal cappello uno “Special purpose vehicle”, il complesso strumento finanziario che portò alla nascita del Fondo europeo di stabilità finanziaria. Poi si è riconosciuto che serviva qualcosa di più, perché i mercati si erano accorti che anche i conti di Irlanda e Portogallo non erano in ordine. Ma nemmeno la pezza dei bailout irlandese e portoghese ha impedito alla crisi di propagarsi.

Ora la Grecia deve essere salvata di nuovo perché i 110 miliardi di un anno fa non bastano, mentre Spagna e Italia vedono i costi per rifinanziare il loro debito andare alle stelle. Come nella notte del 9 maggio 2010, oggi i leader della zona euro brancolano nel buio delle “technicalities” sulla Grecia, sperando di calmare i mercati: un rollover del debito con uno swap dei titoli in scadenza in mano alle banche? un buy-back del debito finanziato dal Fondo salvaeuro? una tassa sulle banche? triplicare le dotazioni del Fondo europeo di stabilità finanziaria? prepararsi a ricapitalizzare le banche greche? pubblicare una dichiarazione solenne per garantire agli investitori che la Grecia è un caso unico, che non si ripeterà con Portogallo e Irlanda, e ancor meno con Spagna e Italia?

Secondo un documento interno rivelato da Reuters, la zona euro ha tre opzioni sul tavolo del vertice: un buyback – un riacquisto – del debito greco sui mercati secondari; un rollover – un allungamento – dell’esposizione delle banche verso la Grecia; una tassa sul settore bancario per farlo partecipare al secondo bailout senza innescare il default di Atene. La battaglia delle ultime settimane si è giocata tra la Germania e la Banca centrale europea. Angela Merkel insiste sulla necessità di un contributo “sostanziale” degli investitori privati al nuovo bailout, anche a rischio di spingere le agenzie di rating a dichiarare un default. Per contro, secondo il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, “un credit event, un default selettivo o un default deve essere evitato” a ogni costo.

La Germania è divisa: l’ex cancelliere Helmut Kohl ha accusato Merkel di “distruggere la mia Europa”. E la Bce lo è altrettanto: “Ci sono alcune proposte che prevedono una situazione di default molto breve e che non avrebbero forti conseguenze negative”, ha detto ieri Ewald Nowotny, il governatore della Banca nazionale austriaca nel board della Bce. Alla fine – spiegano al Foglio fonti comunitarie – il vertice potrebbe produrre “un mix” delle tre opzioni sul tavolo: una tassa sulle banche, una forma di swap del debito e prestiti extra per la Grecia a condizioni migliori.

Con un debito al 160 per cento del pil, la maggior parte degli analisti sono concordi: per Atene “alla fine della strada c’è la necessità di una massiccia riduzione del carico del debito”, spiega Guntram Wolff del think tank Bruegel: “Sarà necessaria una qualche forma di ristrutturazione sostanziale. Per compiere una mossa di questo tipo occorre prepararsi e (i leader europei) non hanno tempo prima del vertice”. Insomma, prima o poi la zona euro dovrà abbandonare i tecnicismi e compiere una scelta di fondo sulla Grecia: lasciarla andare in bancarotta e uscire dall’euro; oppure accollarsi gran parte del suo debito attraverso una forma di Eurobond.

Ma la scelta esistenziale non vale solo per la Grecia. I valori dei credit default swap mostrano che Irlanda e Portogallo hanno il 60 per cento di probabilità di fare default. I rendimenti dei bond di Spagna e Italia stanno crescendo a un ritmo vertiginoso, tanto da annullare gli effetti benefici dell’appartenenza all’unione monetaria. I default di questi paesi significherebbero la fine della zona euro com’è ora. Ma le ripercussioni del piano D, con un ritorno alle monete nazionali, verrebbero pareggiate dalla possibilità di scontare debito e mancanza di competitività attraverso svalutazioni e inflazione. Con il piano E, Germania e Francia rischiano di perdere la tripla A. Ma gli Eurobond garantirebbero il ritorno della fiducia dei mercati per il periodo necessario a riportare le finanze di tutta la zona euro su un percorso sostenibile.

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