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Fast fashion, luci e ombre di un mercato da 120 miliardi di dollari

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Il settore del fast fashion non fa altro che crescere anno dopo anno. Solo nel 2019 si parla di un fatturato mondiale intorno ai 120 miliardi di dollari, con aziende come Shein che sono arrivate a fatturare oltre 60 miliardi di dollari nel 2022. Un settore basato sulla vendita di vestiti prodotti a tempi di record: stanno così poco nei negozi e negli outlet che non diventano mai una moda. Un fashion veloce, che dura pochi mesi, il tempo giusto per garantire le vendite.

Ma a quale prezzo? Parte del successo della fast fashion deriva dai costi di manodopera decisamente bassi rispetto alla produzione media di capi d’abbigliamento, e così dalla qualità del materiale, talmente economico da permettere la vendita di capi a pochissimi euro. Abiti però che a livello ambientale contribuiscono inevitabilmente allo sfruttamento delle risorse idriche, oltre che all’inquinamento e alla produzione di rifiuti. Eppure, malgrado le ombre, il settore può fare la differenza nel grande mondo della moda.

Fast fashion, un mercato da 120 miliardi di dollari

Il settore del fast fashion non è recentissimo, perché si parla di un modo diverso di acquistare i capi d’abbigliamento. Invece di comprarli nuovi o presso boutique, ci si affida a siti online dove vengono presentati modelli o abiti di bassa qualità e prezzo. Grazie all’esplosione di Internet e dello shopping online nell’ultimo decennio, il settore del fast fashion ha raggiunto un livello di fatturato impressionante. Secondo il report del Boston Consulting Group il ricavo annuo si aggira tra i 100 e i 120 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuale del 20, 30%. Nell’oltreoceano addirittura il second-hand detiene un giro d’affari di 82 miliardi di dollari.

La forza di questo settore è nel prezzo. In primis quello di produzione, anche grazie alla manodopera a basso costo oggi presente nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Come riportato da Textile Exchange dell’ottobre 2022, buona parte dei prodotti second-hand sono fatti con materiali sintetici. Basti pensare che nella produzione di fibre globali (113 milioni di tonnellate), il 64% corrisponde a materiali sintetici, e solo il 28% da tessuti vegetali (22% cotone), mentre solo il 1,62% deriva da fibre animali (0,92% lana).

E così  anche nel prezzo di vendita. Come riporta Affari Italiani, il boom del second hand è anche in locali come la Cooperativa Manoamano di Viale Espinasse (Milano), dove si erano creare delle file molto lunghe per via dei prezzi che proponevano: con 18 euro potevi comprare più abiti e accessori che in qualsiasi altro negozio d’abiti. La quantità che vince sulla qualità. Come viene riportato su Reuters, anche in America il successo dell’ultra fast fashion è dettato dal prezzo di vendita: le vendite di top a 10 dollari e abiti a 15 dollari hanno anzi contribuito a impennare il valore di Shein.

Il caso Shein, dallo sfruttamento all’inquinamento

Praticamente a capo di oltre la metà del fatturato annuo del fast fashion, Shein è il simbolo di questo settore, e di tutte le sue luci e ombre. Nata nel 2008 su idea dell’imprenditore cinese Chris Xu, dalla semplice vendita di gioielli online in pochi anni diventa una delle piattaforme di moda più cliccate al mondo. Se nel 2020 è arrivata a fatturare 10 miliardi di dollari, a novembre 2021 l’azienda valeva 30 miliardi di dollari e oggi supera i 60, più di Adidas, H&M e Burberry messi insieme. Un successo anche dettato dal suo “atelier” 2.0, basato su algoritmi e analisi dati. Per vendere sempre di più, produce grazie a questo sistema nuovi modelli in appena 10 giorni, contro le 5 settimane che impiega la sua concorrente Zara. Così facendo, il sito è arrivato a caricare fino a 6000 nuovi prodotti al giorno, anche se questo significa ricevere continue denunce di plagio sia da designer emergenti che da case di moda consolidate.

Ma il plagio è il problema minore per Shein. In una recente inchiesta di Milena Gabanelli per il Corsera, è emerso tutto il mondo dietro Shein, e soprattutto dietro il fast fashion. Citando l’inchiesta condotta dalla giornalista anglo–algerina Imam Amrani, in cui entrò con una telecamera nascosta in due delle 700 fabbriche di Shein, nella provincia cinese dello Guangzhou, ci si trova davanti una realtà lavorativa fatta di turni di lavoro di 17 ore al giorno, e condizioni igieniche disumane: 500 capi al giorno, con una paga di 4 centesimi a capo.

E senza contare la tipologia di prodotti venduti. Un rapporto di Bloomberg ha evidenziato che i prodotti Shein contengono il 95,2% di microplastiche, mentre un’indagine di CBC Marketplace ha rivelato che alcuni prodotti di Shein contengono piombo, PFAS e ftalati. Addirritura Greenpeace ha denunciato che alcune sostanze chimiche utilizzate nei prodotti superano i limiti di legge UE. A sua volta la produzione si concentra su capi di cotone, che richiedono in media 2.700 litri d’acqua. A questi vanno aggiunti anche i vari fertilizzanti chimici e diserbanti per il processo intensivo, che vengono assorbiti dal terreno e inquinano le falde. Tutte procedure vietate in Europa, ma non nello Xinjiang, una regione del Nord-Ovest della Cina, dove si trovano i campi da lavoro forzato della minoranza Uiguri: è da lì che provengono le magliette di cotone vendute da Shein, stando ad un rapporto di Bloomberg del 2022.

Una proposta per rendere più sostenibile il fast fashion

Eppure tutto il male non viene per nuocere. Il fast fashion da semplice comparsa sta diventando un vero e proprio attore economico nel grande mondo della moda. Per questo non può permettersi di mantenere in piedi un tipo di economica basato sullo sfruttamento, sia in termini di lavoro, sia in termini ambientali. Gli stessi danni del fast fashion sono ormai ben noti, e le stesse aziende del settore stanno ricevendo pressioni per cominciare a dare una svolta al proprio business: la stessa Shein si è impegnata a realizzare una catena di fornitura completamente circolare entro il 2050. In questo obiettivo riceverà il supporto della società tecnologica statunitense Queen of Raw per recuperare i tessuti in eccesso da marchi e rivenditori per utilizzarli nella propria filiera.

Anche da parte delle istituzioni sono in arrivo delle proposte. La Commissione Europea, a marzo 2022, aveva definito delle strategie per rendere l’industria tessile più sostenibile, spingendo per l’utilizzo di tessuti che durano di più, e con una provenienza chiara e certificata da un “passaporto digitale”. Si aggiunge a sua volta la proposta dell’Unione Industriali Torino, che cita il caso del marchio svedese H&M tra i primi ad aver iniziato a produrre in modo più sostenibile, usando il poliestere riciclato e materiali in fibre naturali come la viscosa, oltre ad usare un cotone 100% proveniente da fonti sostenibili.

Proposte che possono davvero fare la differenza, e cambiare così l’attuale produzione di rifiuti tessili. Si stima che circa 39.000 vestiti l’anno finiscono nell’arido deserto di Acatama, in Cile: molti di questi provenienti da H&M, secondo l’indagine di Staffan Lindberg del quotidiano svedese Aftonbladet, e citato dal Quotidiano Nazionale. Ed erano tutti destinati al riciclo, alla conversione o alla vendita nei mercatini dell’usato. Invece sembra che buona parte dei capi sarebbe finita in Africa o in Asia per finire bruciata o dispersa in mare.