La riunione di dicembre può aver segnato la fine del regime di tolleranza a oltranza nei confronti dell’inflazione da parte della Fed. Jerome Powell, infatti, ha mostrato un atteggiamento da falco che non aveva ancora mai assunto da quando è al comando dell’istituto centrale, nemmeno in quel fine 2018 segnato dal rialzo dei tassi e dal simultaneo Quantitative Tightening. A concentrarsi sul tema è un’analisi di Andrea Delitala, Head of Euro Multi Asset e Marco Piersimoni, Senior Investment Manager di Pictet AM.
La decelerazione del QE
Non ha spaventato i mercati l’annuncio di una decelerazione più forte del Quantitative Easing, ovvero dell’incremento nel ritmo della riduzione degli acquisti: a partire da gennaio, questi si contrarranno di 30 miliardi di dollari al mese, il doppio rispetto agli attuali 15 (decisi a novembre), fino ad arrivare ad azzerarsi a marzo. La normalizzazione più rapida della politica monetaria era stata ampiamente anticipata.
Una mossa correttiva utile
Il mercato, da alcune settimane preparato per questa eventualità, vi ha letto, la correzione di un ritardo nella fine del QE. Infatti, la continua iniezione di liquidità ($120mld/mese), da qualche trimestre non era più imprescindibile per sostenere l’economia visto che lo stato di emergenza può essere considerato superato (almeno per il momento). La fase di allentamento monetario congiunto, caratterizzato da tassi ai minimi e programmi di acquisto smisurati, volge quindi al termine, dopo aver raggiunto livelli mai visti in passato nel tentativo di limitare gli effetti della pandemia di COVID-19.
I rialzi ai tassi previsti
Le proiezioni della Fed in merito al sentiero dei tassi risultano oggi allineate a quelle del mercato: tre rialzi nel 2022 (fino a tre mesi fa era uno solo), e tre ulteriori gradini da scalare nell’anno successivo. Anche su questo punto, la reazione degli operatori di mercato è stata estremamente disciplinata, in quanto, avendo visto le proprie aspettative legittimate, non è stato necessario riprezzare il percorso dei rialzi dei tassi.
Il focus sui salari
Da qui in avanti, il focus della Fed sarà sull’inflazione salariale, la componente più persistente dell’inflazione e sicuramente quella che impatta in misura maggiore sulle manovre di politica monetaria, che poco possono fare, invece, per contrastare la crescita dei prezzi determinata da strozzature nelle catene di approvvigionamento, come quelle registrate negli ultimi mesi. Quando l’inflazione al consumo si normalizzerà (per effetto base negativo e riallineamento tra domanda e offerta dopo i temporanei colli di bottiglia legati al COVID), i salari reali torneranno a crescere e, in quel momento, la produttività dovrà tenere il passo. Altrimenti, la Fed sarà chiamata a intervenire con decisione per non perdere il controllo dell’inflazione.
La reazione ordinata dei mercati
Il mercato ha reagito in modo molto ordinato al cambio di orientamento da parte della Fed, apprezzando evidentemente la svolta, a fronte di dati di inflazione persistente, come il modo giusto per ristabilire la credibilità dell’istituto sulla capacità (e volontà) di adempiere al mandato di stabilità dei prezzi. Ciò detto, la linea morbida della tolleranza, che pare definitivamente accantonata, potrebbe tornare in auge qualora la ripresa economica fosse meno solida del previsto o l’inflazione (anche attesa) rientrasse più rapidamente.
Le svolte della Fed negli anni
Dopotutto, negli ultimi anni la Banca Centrale USA ci ha abituati a più di una svolta di politica monetaria: in taluni casi mostrando un’utile iniziativa e creatività, come in occasione delle tempestive misure straordinarie prese durante la Grande Recessione (fine 2008/inizio 2009) o la pandemia (primavera 2020). In altri casi, come quest’ultimo o la fine del 2018 (QT sui binari, ‘on a preset course’), la svolta pare dettata da un errore di valutazione precedente. Meglio così che perseverare nell’errore.
Il ciclo economico più imprevedibile
Bisogna infine riconoscere che un ciclo economico eccezionale come questo, scandito dallo shock pandemico intermittente, sia così difficile da interpretare in tutte le sue implicazioni macroeconomiche che anche le indicazioni dei Policy Makers hanno valore limitato nel tempo. A questa minore affidabilità delle promesse delle banche centrali dovremo dunque abituarci, così come alla volatilità che da essa potrebbe scaturire.