La Fed ha varato un nuovo aumento dei tassi dello 0,75%. Confermate appieno le attese degli analisti e degli operatori. Questo è il quarto rialzo di questa dimensione e ha portato il riferimento al 3,75-4%: il livello più alto dal 2018. L’attenzione degli esperti, però, si concentra principalmente su una nuova frase del comunicato che guarda avanti:
“Nel determinare il ritmo dei futuri aumenti nell’intervallo target, il comitato terrà conto dell’inasprimento cumulativo della politica monetaria, dei ritardi con cui la politica monetaria influisce sull’attività economica e sull’inflazione e degli sviluppi economici e finanziari”.
Questa frase potrebbe indicare, secondo Wall Street, che la fase dei maxi-rialzi è giunta al termine. Nel comunicato viene inoltre sottolineato che gli attuali rialzi risultano essere appropriati per raggiungere una politica monetaria sufficientemente restrittiva per riportare l’inflazione al 2%. “Siamo fortemente determinati a riportare l’inflazione al 2% e abbiamo gli strumenti per farlo – ha affermato Jerome Powell, presidente della Fed -. Abbiamo bisogno di vedere l’inflazione calare in modo significativo“.
In mattinata gli analisti di Unicredit hanno sottolineato come i dati emersi dell’ultima riunione del Fomc continuino a rimarcare l’ostinatezza dell’inflazione troppo elevata. Il mercato del lavoro, invece, rimane fin troppo resiliente. Qualche piccolo problema inizia ad emergere anche dal mercato immobiliare: i mutui sono schizzati oltre il 7%.
La Fed e il rischio recessione
Goldman Sachs, prima della riunione, aveva previsto che la Fed alzi i tassi di 50 punti a dicembre, per alzarli nuovamente a febbraio e marzo di 25 punti base: una delle ipotesi che sta circolando è che con il nuovo anno il costo del denaro possa arrivare a toccare il 5%, un livello molto alto, che non è mai stato stimato in precedenza. L’atteggiamento falco della Fed ha fatto moltiplicare i timori per una possibile recessione negli Stati Uniti: a preoccupare, inoltre, è il contesto di profonda incertezza, causato dalle varie tensioni geopolitiche e dalla guerra in Ucraina.
Una vera e propria preoccupazione arriva anche dal dollaro forte: i rialzi della Fed hanno fatto sì che il biglietto verde si rafforzasse nei confronti delle altre valute. Una situazione che ha ulteriormente complicato la lotta all’inflazione delle altre banche centrali e ha mandato in fumo, nel corso del terzo trimestre 2022, qualcosa come 10 miliardi di dollari di utili delle aziende statunitensi.
Come anche le altre grandi banche centrali, la Fed è impegnata in un delicato gioco di equilibri. Da una parte deve lottare serratamente contro l’inflazione e dall’altra deve evitare che si concretizzino una serie di minacce, tra cui quella di una pericolosa instabilità finanziaria. Al momento i banchieri centrali sono consapevoli che, nel caso in cui dovesse mancare un’azione forte sui prezzi, il rischio sarebbe quello di dover procedere in modo ancora più aggressivo.