MILANO (WSI) – Chi bluffa nella partita a poker della Chrysler? Nei giorni scorsi, nelle dichiarazioni pubbliche prima e in una intervista al Financial Times poi, Sergio Marchionne ha annunciato: «Tecnicamente la quotazione in Borsa è possibile già entro quest’anno. Ma credo che converrà attendere il primo trimestre del 2014».
Traduzione possibile: ci sono ancora cinque mesi per evitare quella che al Lingotto considerano una vera iattura, arrivare a quotare Chrysler prima della fusione con Fiat.
Cinque mesi per trovare un accordo con il fondo Veba che garantisce pensioni e assistenza medica a 65.000 ex dipendenti della casa di Detroit. Poi, se l’accordo non dovesse arrivare, nascerà un mostro a due teste: un gruppo industrialmente sempre più integrato ma finanziariamente diviso, con Chrysler che torna a Wall Street dopo la rinascita dal fallimento e Fiat, che ne possiede la maggioranza, quotata alla Borsa di Milano. Insomma: separati in Borsa. A chi conviene davvero?
Forse a nessuno ed è anzi probabile che l’annuncio della quotazione in tempi brevi sia in realtà un bluff e che Marchionne pensi di chiudere la partita con Veba senza passare prima da Wall Street. Magari con l’arbitrato delle banche. Vediamo come e perché.
«Tutto quanto sta accadendo era una delle possibilità previste dall’accordo del 2009», dicono a Auburn Hill, quartier generale di Chrysler. Prevista sì, gradita no. Il braccio di ferro sul valore reale delle azioni ancora in mano a Veba, il 41,5 per cento del totale, dura dal luglio del 2012.
Con la complicità di una giustizia americana che non ha nulla da invidiare, quanto a tempi di decisione, a quella italiana. Non sapendo come venire a capo della lite, la Fiat si è infatti rivolta al tribunale.
Ma il giudice del Delaware, Donald Parsons, non sembra morire dalla voglia di dirimere il nodo gordiano e con una serie di rinvii ha fatto chiaramente capire ai legali di Marchionne che è più opportuno che il prezzo lo faccia il mercato e non un magistrato.
La distanza tra domanda e offerta è ancora molto alta. Oggi la Fiat calcola che il pacchetto possa valere meno di 3 miliardi di dollari mentre per Veba sono più di 5. «Se vogliono 5 miliardi – ha risposto Marchionne nei giorni scorsi comprino un biglietto della lotteria». Eppure le distanze sono proporzionalmente diminuite: a luglio del 2012 la Fiat offriva 1,8 miliardi di dollari e Veba ne chiedeva 4,2.
Nel frattempo, spiegano gli avvocati che seguono il dossier, lo stato di salute di Chrysler è migliorato e dunque sono saliti i valori determinati dalla formula di calcolo prevista dall’accordo del 2009. Ma i calcoli di Fiat e quelli di Veba continuano a divergere molto.
Il pacchetto in mano al fondo del sindacato Usa è diviso in due parti. La prima, di poco superiore al 23 per cento, è destinata ad essere ceduta a Fiat a blocchi del 3,3 cento ogni sei mesi a un prezzo determinato da una formula che tiene conto delle performance dell’azienda. È sul calcolo di quel prezzo che è in corso il braccio di ferro di Detroit. Fino ad oggi Fiat ha già annunciato l’intenzione di acquistare 3 dei 7 blocchi previsti ma il passaggio delle azioni è di fatto sospeso.
Altrimenti il Lingotto avrebbe già in mano il 9,9 per cento di azioni che, aggiunte al 58,5 posseduto a pieno titolo, porterebbero Torino a controllare il 64,9 di Auburn Hills. A gennaio di quest’anno il fondo Veba ha annunciato la sua contromossa, anche questa prevista dall’accordo del 2009. I legali del sindacato Usa hanno dichiarato di voler quotare in Borsa il 16 per cento delle azioni Chrysler in loro possesso che non sono vincolate al sistema delle vendite semestrali a Fiat.
In questo modo, ceduto il 23 per cento con le vendite ogni sei mesi e il 16 per cento come flottante in Borsa, il Veba avrebbe ancora in mano poco più del 2 per cento di Chrysler. La logica è stringente: se non si trova un prezzo applicando le formule degli accordi, il prezzo lo faccia Wall Street.
La minaccia è implicita: se la Fiat è obbligata a quotare in anticipo Chrysler prima di fondere le due società, il piano del Lingotto si complica. E, nella previsione che la quotazione faccia salire il valore delle azioni, Torino sarà costretta a pagare di più di quanto non sia disposta a fare oggi.
Marchionne ha annunciato così di essere ‘tecnicamente’ pronto a quotare Chrysler in Borsa. Ha detto che potrebbe farlo già entro fine anno ma che «è preferibile quotare entro il primo trimestre 2014». Tradizionalmente, fanno sapere a Auburn Hills, i primi mesi dell’anno sono più favorevoli alle Ipo. In realtà con il suo annuncio, l’ad del Lingotto ha spostato a marzo la scadenza dandosi altri mesi di tempo per la trattativa con Veba.
L’idea che circola in queste settimane a Detroit è quella di trovare un soggetto terzo che svolga le funzioni di arbitro nella disputa evitando alle parti di perdere la faccia. Scartata la strada del tribunale, una soluzione potrebbe venire dalle banche.
Si potrebbe nominare un gruppo di saggi del sistema creditizio che in poco tempo sia in grado di dirimere la questione del valore delle azioni togliendo le castagne dal fuoco a tutti ed evitando ai dirigenti di Veba la spiacevole accusa dei soci di aver venduto la quota per un piatto di lenticchie. Perché il tempo stringe e tutti hanno fretta in questa storia. Ha probabilmente fretta il Veba, che deve capitalizzare il pacchetto Chrysler per pagare l’assistenza ai suoi 65.000 iscritti.
Ma ha fretta anche Marchionne che deve fondere le due società e quotarle prima che freni la crescita del mercato Usa delle quattro ruote. Una fusione rapida potrebbe avere effetti anche sulla sponda europea dell’impero Chrysler.
Non tanto perché Marchionne avrebbe mano libera nell’utilizzo degli utili di Detroit per investire nella disastrata Europa. Questa eventualità è temuta come il fuoco in America. Al punto che nel 2011, quando Auburn Hill restituì il prestito ottenuto dal Tesoro americano al momento del fallimento, contrattò una linea di credito con le banche Usa che prevede esplicitamente il divieto di utilizzare gli utili Chrysler per investirli fuori dall’America.
Quelle linee di credito scadono tra il 2016 e il 2017 e fino a quella data il lucchetto della cassa Chrysler è chiuso. Si aprirebbero invece, dopo la fusione, le possibilità di accedere al sistema creditizio Usa a tassi molto più convenienti di oggi e questo potrebbe favorire anche gli investimenti europei.
Perché è ormai chiaro che la nuova società nata dopo la fusione sarà una società americana a tutti gli effetti, quotata a Wall Street. Che il pacchetto di controllo sia in mano a una famiglia italiana (con un presidente nato a New York) e la sede legale in Olanda conta poco.
Anche perché, se vale il meccanismo che si sta sperimentando in queste settimane con la fusione Cnh-Fiat industrial, dopo la quotazione gli Agnelli potrebbero diluire molto la loro partecipazione mantenendo comunque il controllo grazie a un sistema di calcolo del voto che attribuisce alle loro azioni un peso maggiore in assemblea.
Un sistema analogo è quello che garantisce alla famiglia Ford il controllo dell’azienda. La nuova Fiat sarà dunque principalmente americana e proprio per questo Marchionne tiene a garantire che in Italia non si chiuderanno altri stabilimenti dopo Termini Imerese. Per raggiungere l’obiettivo però è necessario risolvere il rebus Alfa Romeo.
Solo con i modelli del Biscione Mirafiori potrebbe tornare a occupare i 5.200 dipendenti delle Carrozzerie (che non possono tutti affannarsi intorno a un’unica linea dei modelli Maserati) e saturare l’impianto di Cassino che oggi langue.
Ma per risolvere il rebus sono necessari investimenti e per avere i denari è necessario che le banche concedano crediti a tassi vantaggiosi. Meglio affrettare la fusione trovando un accordo sul prezzo con Veba. Anche per questo la quotazione Chrysler annunciata in questi giorni potrebbe essere un bluff.
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