(WSI) – Di che cosa parliamo quando parliamo di Fiat? L’automotive italiano è un tessuto industriale articolato. C’è il gruppo di Torino e ci sono migliaia d’imprese impegnate in una filiera caotica ma efficiente che rende la dorsale padana – che dal capoluogo piemontese raggiunge Vicenza e innerva la Lombardia e l’Emilia Romagna – il sistema probabilmente più competitivo d’Europa: livelli tecnologici tedeschi e prezzi italiani.
La struttura non è gerarchica, ma il baricentro resta Torino. Non fosse altro perché nell’auto, ormai non troppo distante per complessità scientifico-organizzativa dall’aeronautica e dall’aerospazio, gli investimenti in ricerca e sviluppo restano significativi: soltanto le case produttrici se li possono permettere e sono i loro laboratori a studiare le innovazioni radicali – in particolare i nuovi motori e i nuovi modelli d’ingegnerizzazione – che poi vengono travasate verso i componentisti.
Questi ultimi dispongono di autonome capacità d’innovazione, ma resta fondamentale la pressione esercitata dall’alto dalle case produttrici, che produce nell’intera filiera una spinta industriale verso il miglioramento continuo. Quindi, con un effetto a catena, ecco i componentisti distillare conoscenze e competenze ai subfornitori e cosi via, fmo ai più piccoli protagonisti del sistema. Le cifre in gioco nel nostro paese sono difficili da fissare con precisione.
Stando alla relazione finanziaria al 31 dicembre del 2009, in Italia l’intero gruppo Fiat (non solo l’auto, ma anche i trattori, i robot, le macchine movimento terra) ha 64 siti fra stabilimenti e sedi non prettamente manifatturiere e puo’ contare su poco più di 80 mila occupati. Dal lato dei ricavi, l’intero gruppo Fiat ha fatturato l’anno scorso in Italia 12,7 miliardi. Sempre secondo i documenti forniti al mercato dal Lingotto, il fatturato globale dell’auto, riferito non solo all’Italia ma a tutto il mondo, è stato di 26 miliardi di euro. L’azienda non dichiara nemmeno agli analisti quanto fattura con l’auto nel nostro paese. Proviamo a fare una stima ragionevole.
Dai bilanci risulta che il prezzo medio a cui il Lingotto vende un’autovettura uscita dai suoi stabilimenti ai suoi rivenditori è di 10.844 euro. Si tratta di un prezzo medio mondiale. Se s’ipotizza che la cifra per l’Italia possa essere intorno agli 11mila euro e la si moltiplica per le 721.921 macchine vendute nei 2009, ecco che si potrebbe formulare l’ipotesi che il fatturato contabile dell’auto in Italia sfiori gli 8 miliardi.
Se invece si considerano gli automezzi prodotti in Italia e si ragiona su una stima di sostanza e non formale (una quota potrebbe finire su bilanci non italiani) il calcolo è di poco diverso: il gruppo di Torino ha prodotto in Italia l’anno scorso 782.561 fra auto, veicoli commerciali leggeri e pesanti. A questo punto, si arriva a poco meno di 9 miliardi. In ogni caso, che si consideri i fatturato contabile o di sostanza, i numeri sono quelli. Numeri interessanti, perché costituiscono una buona base per calcolare qual è l’impatto della Fiat sul resto dell’economia.
Secondo gli analisti dell’Osservatorio sulla componentistica di Torino istituito dalla Camera di commercio della città (dove il presidente è Alessandro Barberis, dal 1982 al 1993 amministratore delegato di Magneti Marelli e per un breve periodo numero uno del Lingotto) e dall’Anfia, 100 euro fatturati dalla Fiat ne producono almeno 250 nell’indotto: un calcolo che include tutti, dai fornitori che progettano in tre dimensioni parti del motore, ai designer, fino ai titolari delle ditte di pulizia che tengono in ordine gli uffici e le linee produttive della Fiat e dei componentisti.
Nelle imprese della filiera le commesse della Fiat genererebbero altri ricavi per circa 22,5 miliardi. Ecco che il Lingotto, fra ricavi diretti e ricavi generati nelle altre imprese automotive, produce un giro d’affari aggregato per una trentina di miliardi. C’è, poi, l’altrettanto interessante questione sull’impatto delle attività del gruppo Fiat sul mondo non direttamente automotive. Proviamo a usare la stima del fatturato contabile: i ricavi Fiat nell’auto dovrebbero valere 8 miliardi.
Il resto potrebbe valere circa 5 miliardi. In questo caso, l’effetto prodotto sul resto del sistema economico italiano è di equivalenza fra ordini e fatturato, più qualcosina che viene generata nelle transazioni. A questo punto è stimabile che – fra camion, robot, siderurgia, componenti, macchine movimento terra – 100 euro di fatturato di Fiat ne producano 120 nelle altre imprese. A quel punto i 5 miliardi diventano 6 miliardi. In tutto, le attività non direttamente riconducibili all’auto, in maniera diretta o indiretta, valgono 11 miliardi.
Torniamo alla questione dell’auto, che rappresenta l’incognita politicamente più sensibile. Abbiamo detto che esiste un legame molto stretto con la Fiat. E sussistono dei dubbi sulla possibilità di avere un sistema complesso e articolato come una filiera senza una testa pensante, in grado di catalizzare risorse finanziarie sulla ricerca, di elaborare strategie commerciali e di definire un posizionamento sui mercati globali: tutti fattori difficili da gestire in piccole e medie strutture. Secondo l’Osservatorio sulla componentistica, l’intera filiera dell’automotiVe – tenendo fuori Fiat – ha generato ricavi pari a 42 miliardi.
Una ventina di miliardi sono dovuti alle attività ottenute con le altre case produttrici, in un processo di diversificazione che ha portato la filiera a orientarsi anche verso i produttori stranieri, in particolare tedeschi e francesi. Al di là della possibilità o meno che esista un sistema acefalo, è difficile pensare che una regressione dell’attività di Fiat in Italia non incida su una filiera che già l’anno scorso ha visto i fatturati aggregati calare in media del 16,9%% (più del totale del manifatturiero, che è sceso del 15,5%).
Con una questione in più: il futuro della filiera italiana sarà determinato dalla scelta o meno di Fiat non solo di produrre negli stabilimenti del nostro paese, ma anche di progettare le prossime piattaforme qui o altrove. Il valore aggiunto materiale e immateriale, che scende giù per i rami nell’albero di un automotive italiano che storicamente ha avuto come unico tronco il gruppo di Torino, si concentra e prende forma e forza proprio intorno alla concezione e all’ideazione delle future piattaforme.
Distogliendo però lo sguardo dal futuro, e provando invece a sintetizzare di che cosa parliamo quando parliamo di Fiat, si può fare una buona stima ragionevole. Nove miliardi di fatturato auto che generano altri 22,5 miliardi. In tutto, fanno 31,5 miliardi di fatturato all’anno. Considerando i fili ad alta tensione che collegano Torino con tutto il resto della filiera e assumendo che è difficile pensare a un sistema privo di un produttore nazionale anche per quanto riguarda le attività dei componentisti e dei subfornitori non connesse a Fiat (un’altra ventina di miliardi) ecco che potremmo azzardare un numero finale, dato dall’influenza diretta o indiretta del gruppo di Torino sull’intero automotive: 51,5 miliardi.
A questa somma, giusto per capire bene di cosa parliamo quando parliamo di Fiat, vanno aggiunti i 5 miliardi delle attività industriali non auto che, a loro volta, producono nel resto del sistema produttivo italiano altri 6 miliardi di ricavi. In tutto, fanno 11 miliardi. Unendo la doppia dimensione, auto e non auto, e considerando l’influenza diretta e indiretta del Lingotto, ecco che il fatturato aggregato complessivo collegato in qualche maniera alla Fiat diventa di 62,5 miliardi. Una stima prudenziale e relativa soltanto alla dimensione più spiccatamente industriale, dato che in ogni caso non tiene conto degli effetti moltiplicatori che, giù nel profondo della società e dell’economia del nostro paese, l’attività del gruppo di Torino produce sui consumi e sugli investimenti dei dipendenti e sui redditi da capitale.
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Fiat, l’accordo Mirafiori spacca il Pd
di Goffredo De Marchis
Vendola: no allo schiavismo. Bersani: serve un accordo di sistema. Fassino: io voterei sì.
(WSI) – Nichi Vendola sfida di nuovo i democratici e lo fa sul terreno delicatissimo dell’accordo di Mirafiori. Se la domanda di fondo per il Pd è quella sul-la sua identità, su dove vuole andare, il contratto della Fiat è un «punto dirimente», dice il governatore pugliese ben felice di infilarsi nelle laceranti contraddizioni del Partito democratico.
Dove il candidato sindaco diTorino Piero Fassino dice: «In fabbrica voterei sì all’accordo, nell’interesse dei lavoratori». Mentre l’eurodeputato del Pd Sergio Cofferati firma il manifesto della nuova associazione a sostegno della Fiom “Lavoro e libertà” in cui si esalta «il conflitto sociale contro l’incubo autoritario del sistema governo-Confindustria-Fiat». IncalzaVendola: «Abbiamo un’occasione sto-ricae straordinaria per confrontarci sul programma che è quelBertinotti, Cofferati e Rossanda: “Si al conflitto sociale, battere l’incubo autoritario” la del caso Marchionne».
Ma il confronto lui lo ha già risolto a modo suo, con una risposta senza appello: «In nome della globalizzazione l’amministratore delegato della Fiat mette gli uni contro gli altri gli operai dei mondi emergenti e quelli del cosiddetto mondo civilizzato. Si chiama schiavismo». Marchionne schiavista? Le parole di Vendola non trovano sponde nel Pd. Tutti uniti contro l’estremismo verbale. Sul resto, però, sono divisi. Lo scontro è a viso aperto, le distanze notevoli, il compromesso lontano. Tanto da far dichiarare, preventivamente, al coordinatore Maurizio Migliavacca: «Almeno noi discutiamo di problemi che coinvolgono la gente anziché pensare alla campagna acquisti di deputati e al legittimo impedimento».
Pier Luigi Bersani cerca di sottrarsi al match interno. «Non personalizzo. Non è una auesfione che riguardasolo Marchionne e la Fiom. L’intesa di Mirafiori conferma la necessità di un accordo di sistema, di regole sulla rappresentanza e sulla democrazia sindacale». Come dire che lo strappo torinese non gli piace. Stefano Fassina, braccio destro del segretario per i temi economici, è stato spedito ieri a Torino alla riunione delle segreterie locali del Pd. Con l’ex Cisl Emilio Gabaglio ha scritto il programma sulle relazioni industriali elogiato da Ber-sani e condiviso da Treu, D’Antoni, dall’ex Cgil veltroniano Achille Passoni. «Quella di Mar-chionne—accusa Fassina— 61a risposta sbagliata a un problema vero».
Rispunta quindi il Pd conservatore, legato adoppio filo alla Cgil e alla Fiom, incapace di guardare avanti? «Macchè — ribatte Fassina — . Ci chiedono più coraggio e noi lo abbiamo. Ma il coraggio Marchionne lo chiede agli operai, quand’è che ce lo mettono anche lui e la Fiat?». Fassina illustrala sua posizione: «Il contratto dev’essere vincolante per tutti anche dopo un’approvazione a maggioranza. Su questo ha ragione la Fiat. Maseilvincolo esiste non c’è più ragione di tenere fuori un sindacato. La rappresentanza va rispettata. Infine l’accordo di Mirafiori non ha nulla sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione. Su questo attendo la prova di coraggio di Marchionne».
Voterebbe sì nella fabbrica torinese anche Franco Marini, chiede più forza riformatrice Beppe Fioroni che appoggia la scelta della Cisl, il veltroniano Giorgio Tonini accetta «la sfida di Marchionne» nel nome della modernità. Sergio D’Antoni dice che «Vendola non ha rispetto per la maggioranza dei lavoratori», la lettiana Alessia Mosca definisce il leader di Sel «teologo della conservazione». Nello scontro a sinistra piomba il manifesto della neonata “Lavoro e libertà” firmato, oltre che da Cofferati, dal senatore Pd Nerozzi, da Bertinotti, da Rossana Rossanda, da Stefano Rodotà, da Luciano Gallino, da Mario Tronfi edaaltri.
L’interaopposizione è tormentata dal caso Fiat. Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd; denuncia «l’afasia del partito sull’intera vicenda. In dieci mesi non ha mai assunto una posizione convincente». Non lo è il documento Fassina-Gabaglio «che non risponde minimamente al problema posto da Marchionne». ll problema, dice Ichino, è che deve finire «la stagione in cui ci sono poteri di veto sui contratti da parte della minoranza dei lavoratori». Euna parte della sinistra deve smetterla di sostenere che «Pomigliano e Mirafiori violano i diritti fondamentali dei lavoratori».
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