ROMA (WSI) – Non c’è bisogno di essere laureati in scienza della comunicazione per sapere che per catturare l’attenzione di un lettore distratto da mille pensieri bisogna dipingere tutto a tinte forti, possibilmente fosforescenti.
Ecco perché nelle pagine economiche dei giornali tutto crolla oppure vola. Non c’è mai niente che ristagni, strisci, brancoli, annaspi, zoppichi, saltelli o che semplicemente stia fermo, perfettamente soddisfatto di dove sta o malmostosamente immobile nel suo angolo, ignorato da tutti.
Nei primi giorni di ogni anno questa regola vale ancora di più e tutti sentono il dovere di sbilanciarsi in previsioni che sembrano coraggiose, ma che in realtà sono spesso conformiste e nuotano nella corrente del sentiment prevalente.
All’inizio del 2010 il concetto su cui ci si arrovellava era il double dip, che ancora non si è visto. Nel 2011 e 2012 l’anno è invece partito con vivaci discussioni sui destini dell’Europa e dell’euro, visti da Londra come morti viventi e da Bruxelles come prossimi alla ripresa e che oggi, con il senno di poi, non sembrano né morti né tanto in ripresa.
In realtà i primi giorni dell’anno sono il momento peggiore per fare previsioni. I mercati sono volatili perché poco liquidi e perché i trader si trovano il libro azzerato e possono piazzare le loro scommesse senza che il risk manager li assilli con richieste ultimative di ridurre la posizione. Negli anni, e sono la maggioranza, in cui nel mondo reale, durante le feste, succede poco o nulla, il vuoto favorisce la rapida fioritura di credenze e pensieri unici. Negli anni, come il 2013, in cui invece succede qualcosa di importante (come il fiscal cliff), il rischio di enfatizzare la notizia del giorno e di proiettarla sui 12 mesi successivi è ancora più grande.
Per questo vanno prese con le pinze le previsioni più aggressivamente favorevoli al rischio (e quindi alle borse e all’euro) che circolano in queste ore. L’euforia è spiegabile. È stato superato il fiscal cliff, è l’inizio del mese (quasi sempre positivo) ed è anche l’inizio dell’anno (anch’esso quasi sempre positivo). Non bastasse, non c’è stato il rally di fine anno e quindi il posizionamento è più leggero rispetto ai valori stagionali medi. C’è ancora più spazio del solito, quindi, per il rialzo di gennaio, che è a sua volta una specie di diritto sindacale acquisito.
Tutto giusto, ma proprio per questo sono ancora più interessanti le dichiarazioni di pessimismo che vengono da due dei più incrollabili ottimisti del nostro tempo, Laurence Fink di Blackrock e Byron Wien di Blackstone. Fink non è un money manager qualsiasi, è tra i candidati in pectore alla sostituzione di Geithner al Tesoro e può darsi che in lui parli più il politico che il gestore. Sta di fatto che Fink si dice particolarmente deluso dall’accordo sul fiscal cliff e tanto preoccupato dallo scontro politico nei prossimi due mesi da proporsi di vendere azioni e comprare Treasuries nei prossimi giorni. Dal canto suo Byron Wien parla per il 2013 di un SP 500 sotto 1300, di borse europee in caduta del 10 per cento, di utili in discesa e di emergenti e Giappone, i grandi dimenticati di questi anni, in brillante ripresa. Al fondo del pessimismo di Wien sta forse la più minacciosa delle sue previsioni, quella dell’annuncio da parte dell’Iran di avere raggiunto la quantità di uranio arricchito necessaria a fabbricare la bomba.
In effetti il mercato ha smesso da tempo di pensare all’Iran. Solo i trader di petrolio hanno ripreso da un paio di settimane ad applicare qualche dollaro di premio per il rischio legato alla bomba. Con la Siria alleata che barcolla, Teheran potrebbe essere tentata dall’annuncio, che la rafforzerebbe nelle trattative sul riassetto della regione. Non dimentichiamo che nel 2014 gli Stati Uniti si ritireranno dall’Afghanistan, lasciando un vuoto che un Iran nucleare ha tutta l’intenzione di riempire. E se il 2014 sembra ancora lontano, nemmeno tre settimane ci separano dalle elezioni israeliane, dalle quali Netanyahu e la sua linea usciranno rafforzati. È possibile che non succeda niente neanche quest’anno, ma è difficile che non ci sia un momento in cui si rimetterà a fuoco la questione.
Quanto al fiscal cliff, va benissimo che ci si sia messo sopra un cerottone, ma non bisogna dimenticare due cose. La prima è che il cerottone contiene solo tasse e la seconda è che sulla questione delle spese i repubblicani cercheranno una rivincita in febbraio, minacciando fuoco e fiamme.
Si sa che le tasse degli altri sono sempre giuste, sopportabili e doverose. Quando la Grecia ha aumentato le sue, i mercati internazionali sono stati contenti, i greci meno. Lo stesso è accaduto per le tasse italiane e, adesso, per quelle americane.
Ci sono però quattro problemi. Il primo è che le tasse sono comunque depressive, molto più dei tagli. La propensione marginale al consumo è più bassa per i redditi alti, ma non è pari a zero bensì, negli Stati Uniti, a 25 centesimi per dollaro. Il secondo è che l’aumento della tassazione sui dividendi e i capital gain penalizza l’azionario rispetto all’obbligazionario. Il terzo è che il cerottone tassa tutti, non solo i ricchi, attraverso un aumento degli oneri sociali sulla busta paga. Il quarto è che non è finita qui, perché Obama vuole altre tasse, e tante, in febbraio.
Va bene, si dirà, ma intanto come stanno andando le economie reali e gli utili? Non dovrebbero essere questi i fattori che muovono le borse? Perché continuano a restare sullo sfondo e a destare sempre meno interesse? Per due ragioni, probabilmente. La prima è che le decisioni politiche, in questa fase storica, sono molto più importanti rispetto a tutto il resto. Si pensi solo al fatto, per fare un esempio, che l’80 per cento delle nuove emissioni di debito pubblico americano è ormai acquistato dalla Fed. Che ruolo può mai avere il mercato con il suo piccolo 20 per cento? La seconda ragione è che i dati macro continuano nel loro complesso a non essere né particolarmente buoni né particolarmente cattivi, con la sola eccezione dell’Europa mediterranea. Il Pil americano, nel primo trimestre, crescerà a una velocità annualizzata vicina all’uno per cento, cioè poco, ma questa sembra essere l’ultima delle preoccupazioni per i mercati. Lo stesso vale per l’Europa, che avrà crescita zero.
Che cosa pensare, allora, e che cosa fare tra tante incognite?
Partiamo dall’esperienza degli ultimi anni. L’economia è cresciuta poco, ma è cresciuta e così continuerà a essere, verosimilmente, fino al 2015, l’anno in cui la disoccupazione avrà raggiunto un livello fisiologico. Fino ad allora le banche centrali saranno estremamente espansive. Questo vuol dire che il mare della liquidità continuerà ad alzarsi e a sollevare le due barche dell’azionario e dell’obbligazionario. Per motivi tecnici i bond troveranno gradualmente un limite fisico.
Un’obbligazione, per quanto conduca una vita brillante, morirà inevitabilmente a 100 e non ci sono macumbe che possano evitarle questo triste destino. Un’azione, al contrario, ha più libertà e per questo, a un certo punto, vedremo i bond salire sempre più lentamente e le azioni dare loro il cambio nel rialzo.
Un mare che si solleva non è però necessariamente un mare piatto. Ci sono onde, a volte molto ampie e, soprattutto, irregolari. Provare a indovinare il timing di entrata e di uscita da queste onde è arte nobile, ma molto difficile. Nel 2011, ad esempio, gli utili sono saliti molto e la borsa non si è mossa. Nel 2012 è successo esattamente il contrario.
Più che puntare a entrare e uscire dalle onde conviene dunque limitarsi a galleggiare. Vista oggi, la crisi libica (più Fukushima) del 2011 appare una modesta increspatura, anche se a suo tempo sembrò eterna e molto pesante. È possibile che, vista dal 2015, un’eventuale crisi iraniana del 2013 faccia la stessa impressione. Lo stesso vale per le schermaglie sul tetto del debito negli Stati Uniti o per le tristi vicende della crisi europea.
In tre anni si possono fare molte cose. Con le tecnologie di oggi si può andare su Giove, starci un anno e tornare comodamente indietro (con le tecnologie con cui siamo andati sulla luna ci sarebbero voluti 12 anni). A chi dovesse partire per Giove nei prossimi giorni consiglieremmo un portafoglio iniziale composto per il 60 per cento da azioni (un indice globale andrebbe bene) e per il 40 da corporate bond lunghi. Andrebbe lasciato detto al gestore di ridurre progressivamente, ogni tre mesi, la quota di bond a favore di quella di azioni.
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