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(WSI) – La crescita economica della Cina, seguita alla scelta capitalistica di Deng Xiaoping e dei suoi eredi (i maoisti che di questo li accusavano non avevano poi tutti i torti), viene definita nei documenti ufficiali “ascesa pacifica”. Marta Dassù, in una lucida analisi pubblicata dal Corriere della Sera, ha riportato il giudizio di Robert Zoellick, stretto collaboratore del segretario di Stato americano, Condi Rice, secondo cui “l’ambizione cinese non è di sovvertire il mondo dall’esterno ma di influenzarlo dall’interno, attraverso l’integrazione economica”. Finché durerà la crescita economica, quindi, il nazionalismo cinese dovrebbe rimanere pacifico e i problemi potrebbero sorgere solo quando rallenterà, com’è inevitabilmente destinata a fare.
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Forse, però, il pericolo che il nazionalismo cinese diventi aggressivo per convogliare le tensioni interne verso un “nemico” è un po’ meno remoto. La crescita cinese è molto ineguale, da essa sono esclusi più di 700 milioni di cittadini delle zone rurali, che infatti intensificano le proteste. La Cina ha fatto, in alcuni settori industriali, in vent’anni i salti tecnologici che in occidente si sono sviluppati per un secolo. Questo ha moltiplicato la produttività a un ritmo anche superiore alla pur impressionante crescita della produzione.
Questo significa che anche a questi tassi di crescita si producono fenomeni colossali di disoccupazione industriale, che sarebbero ancora più devastanti se si procedesse, com’è inevitabile prima o poi, alla meccanizzazione delle colture agricole. La retorica della solidarietà di stampo socialista non convince più nessuno, in un paese nel quale non c’è praticamente un sistema di sicurezza sociale e dove le diseguaglianze diventano sempre più stridenti. Il nazionalismo sta già sostituendo il comunismo come giustificazione del monopolio del potere del partito unico, e lo diventerà sempre di più, e se le contraddizioni sociali diverranno difficili da gestire all’interno una strada possibile è quella di una politica internazionale aggressiva.
Di questo si devono essere resi conto i dirigenti giapponesi, che la Cina, anche per le loro incursioni imperialistiche del passato, la conoscono bene. Di fronte alla prospettiva di ammodernamento degli armamenti cinesi, cui l’Europa affamata di buoni affari non vede l’ora di contribuire abbandonando l’embargo, il Giappone ha risposto con il primo piano di riarmo dalla fine della guerra mondiale.
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