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Fiscal Cliff, ora il gioco si fa duro

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Il fiscal cliff è un gioco duro, adrenalinico, spettacolare e spietato. Fa venire in mente Rollerball e The Hunger Games, ha qualche tratto di Texas Hold’em e per certi aspetti è simile a Saw, dove una mente criminale inventa trappole mortali a orologeria che le vittime possono disinnescare solo a caro prezzo.

I due giocatori, i democratici e i repubblicani, hanno congegnato insieme le due trappole che li terranno ostaggio gli uni degli altri. Le regole del gioco, del resto, sono note da parecchi mesi.

I democratici, a dire il vero, non hanno nemmeno avuto bisogno di preparare una trappola. Il congegno mortale, infatti, se lo sono preparati i repubblicani nel 2001, quando, per facilitare il passaggio in Congresso di un’ampia serie di tagli fiscali, ne hanno fissato un limite temporale, il 31 dicembre 2012. Fra sei settimane, dunque, se nessuno nel frattempo fa qualcosa per evitarli, scatteranno aumenti di imposte per tutti, ma in particolare per i redditi medio-alti.

Questi aumenti, insieme a una serie di tagli che nei mesi scorsi sono stati concordati tra i due giocatori per rendere ancora più eccitante il gioco, si mangeranno 4 punti di Pil. Da una crescita tendenziale del 2 per cento si passerebbe a un meno due. L’effetto sarebbe parzialmente mitigato dal venir meno dei tagli a livello di governo locale. Poliziotti, insegnanti e pompieri, tutti dipendenti dai 50 stati e dalle contee, sono stati licenziati in ampio numero negli ultimi due anni, ma nel 2013 il governo locale non porterà via altro spazio al Pil. Anche tenendo conto di questo, comunque, il fiscal cliff lasciato a se stesso si tradurrà in una crescita di segno negativo. Nelle trattative, quindi, i democratici punteranno sui repubblicani la pistola del 31 dicembre. Se non ci saranno aumenti concordati di tasse per i redditi alti, allora le maggiori tasse saranno per tutti, ci sarà recessione e i colpevoli saranno i repubblicani.

Il secondo congegno mortale è invece puntato, almeno sulla carta, contro i democratici. Si tratta di una riedizione della vicenda del debt ceiling, il tetto all’indebitamento, che nell’estate del 2011 è andata a un passo dal provocare il default sul debito e ha causato la perdita della tripla A per gli Stati Uniti.

Di che cosa si tratta? In America, come in Giappone, il Tesoro viene autorizzato a indebitarsi fino a un certo limite dal Congresso. Quando questo limite viene raggiunto (e i disavanzi di questi anni sono tali da rendere il processo molto veloce), il Congresso deve dare una nuova autorizzazione. Se non la dà, il governo viene costretto a spendere solo quello che raccoglie con le tasse (come in un mondo ideale dovrebbe essere sempre) e ben presto si trova senza i soldi per pagare gli stipendi ai funzionari pubblici e ai militari, per saldare le fatture ai fornitori e per servire il debito pubblico.

I repubblicani, nell’agosto 2011, acconsentirono a un aumento del tetto per l’indebitamento a patto di fissarne l’entità a un livello tale da richiedere un nuovo intervento del Congresso esattamente in concomitanza con il fiscal cliff, in modo da avere anche loro una pistola da puntare contro i democratici. Si tratta però di un’arma in parte spuntata. Mentre il fiscal cliff scatta alla mezzanotte del 31 dicembre, il default del governo, che teoricamente potrebbe iniziare in gennaio, sarà facilmente rinviato anche di parecchi mesi con artifici contabili.

Come si vede, il gioco del fiscal cliff è come una gara olimpica. Si sa esattamente quando avrà luogo, si conoscono le regole e ci si prepara per anni al grande momento. Si sa anche, molto spesso, come andrà a finire. Ci sono i favoriti, insomma, ma non si può mai avere la certezza assoluta dell’esito. Nel caso specifico, si sa da molti mesi che l’effetto depressivo sul Pil, ad accordo trovato, dovrà essere non del 4 per cento, ma dell’1,5. Si tratterà in pratica di sostituire l’impatto negativo dell’austerità locale, che ha pesato sul 2012, con austerità federale di pari entità, in modo da permettere all’economia di continuare a crescere alla (mediocre) velocità di crociera del dopo crisi, l’1.5-2 per cento.

Su chi dovrà tirare fuori questo 1,5 per cento è scontro aperto. Ogni giorno che passa il rapporto tra tagli di spesa e maggiori tasse si sposta a favore di queste ultime, ma siamo ancora alle prime schermaglie. I repubblicani potranno scegliere il veleno da bere tra la mortale pozione dell’aumento delle aliquote e l’indigesta bevanda del limite alle detrazioni e deduzioni.

Fino a oggi il mondo del dopo crisi ha goduto di una sorta di biodiversità fiscale. L’Europa si è impegnata, fin troppo, sulla strada dell’austerità mentre l’America ha accettato ampi disavanzi. In questo modo, frutto non di un accordo ma di differenti volontà politiche, il mondo è riuscito faticosamente a crescere e ha limitato alla parte debole dell’Europa l’area della sofferenza. Se il modello dell’austerità fosse stato adottato anche dagli Stati Uniti il mondo sarebbe oggi in recessione. Se il modello americano fosse stato adottato anche in Europa, il debito di Italia e Spagna sarebbe forse salito a livelli insostenibili, anche se la questione è controversa (ci sarebbe infatti stata più crescita e il rapporto debito-Pil, forse, non sarebbe salito molto). Da qui in avanti l’America sarà con ogni probabilità meno espansiva, quanto meno sul piano fiscale. L’Europa, in compenso, sarà meno restrittiva. Anzi, lo è già.

Fino alla fine del 2011, infatti, il piano di marcia tedesco per Eurolandia prevedeva per tutti i paesi membri disavanzi pubblici sotto il 3 per cento dal 2013. Mese dopo mese, paese dopo paese, questo programma è stato di fatto accantonato. A molti paesi si chiede ormai solo di continuare lentamente a ridurre il disavanzo, sapendo fin d’ora che sarà già tanto se, con una recessione in corso o incipiente (Francia) si riuscirà a mantenerlo stabile.

La Germania, dunque, si è arresa all’evidenza e ha continuato a lavorare sui disavanzi strutturali dei paesi in crisi, chiudendo un occhio sulla componente ciclica. Sarebbe bello, da qui in avanti, che le pressioni tedesche si esercitassero, più che sui saldi finali dei disavanzi, sul modo per arrivarci. La Germania, in questi anni, ha agito come un dietologo che scende a patti con il paziente, imponendogli di perdere un certo numero di chili ma lasciandogli la libertà di scegliere tra il mangiare meno, il muoversi di più o l’usare i diuretici. I risultati non sono stati brillanti e ora, in qualche modo, si sta cambiando strada.

Per la Grecia ci si sta già avviando in questa direzione. Il piano della Troika è molto minuzioso, molto micro. Atene lo ha approvato integralmente e si è già incamminata concretamente sul percorso prescritto. A questo punto sarebbe molto imbarazzante, per la Germania, staccare la spina finanziaria che tiene in vita la Grecia. Per Berlino il problema è solo quello di rendere gli aiuti poco visibili, non quello di eliminarli.

Tornando all’America, il lato brutto del fiscal cliff è che i contendenti, per rendere accettabile un compromesso alla loro base, avranno bisogno di un clima di emergenza economica e di una borsa spaventata. Il lato bello è che questa, per chi saprà coglierla, sarà un’eccellente opportunità d’acquisto.
Al 95 per cento, infatti, l’accordo ci sarà, anche se richiederà qualche settimana di teatro politico, di trattative dure dietro le quinte e di ansia per i mercati. Il 5 per cento è un rischio di coda di cui va tenuto conto nella gestione del rischio, non nell’impostazione della gestione.

In questi giorni le borse non scendono solo per il fiscal cliff. Cominciano ad arrivare i dati macro americani che incorporano Sandy e per qualche settimana non sarà un bel vedere. Il Giappone è entrato in una recessione tutta sua che non coinvolge il resto dell’Asia e che comunque non rasserena. L’Europa continua ad annaspare, anche se le sue classi dirigenti continuano a dar prova di grande attaccamento all’euro. In America c’è un malessere diffuso sulle tasse in arrivo e molti realizzano i capital gain prima di avere sorprese con l’anno nuovo.

Gennaio, verosimilmente, vedrà una bella schiarita. L’effetto Sandy sarà rientrato e si trasformerà anzi in un piccolo stimolo per il Pil. Le vendite per evitare le nuove tasse saranno finite e avranno creato spazio per nuovi acquisti nei portafogli. Soprattutto, il fiscal cliff sarà stato in qualche modo superato. Peggio delle nuove tasse c’è solo l’incertezza su come saranno e questa, almeno, non ci sarà più.

L’estenuante attesa sarà interrotta a metà strada da un momento di rinfresco. Il 12 dicembre il Fomc annuncerà il Qe4. Che novità è, si dirà, non siamo già in regime di Qe infinito (o indefinito, come amano puntualizzare alla Fed)? Vero, ma il Qe4 metterà nero su bianco modalità e quantità. Da gennaio ci saranno di nuovo acquisti netti di titoli (con l’operazione Twist c’è stato solo un allungamento della duration) e le cifre si preannunciano grosse.

La Fed è del resto sempre più colomba. Il legame tra Qe e livello della disoccupazione è sempre più esplicito. La permanenza dei tassi sullo zero è di fatto prolungata al 2016. Siamo in una di quelle classiche fasi in cui è ancora presto per comprare ed è tardi per vendere. Vedremo facilmente livelli di borsa ancora più bassi, ma altrettanto facilmente vedremo temporanei recuperi. Per adesso onore e merito vanno a chi si è tirato fuori in tempo. Si sappia però che il recupero, quando arriverà, darà pochissime ore a chi vorrà rincorrerlo.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.