ROMA (WSI) – Nostra Signora delle Tasse si chiama Rossella, ma non è detto che domani sia un altro giorno. E soprattutto che sia migliore. La signora Orlandi, 57 anni, empolese e orgogliosa di esserlo (guai a darle della fiorentina), arriva un po’ a sorpresa a guidare l’Agenzia delle Entrate con l’etichetta al collo di Visco Girl, quota rosa di quel drappello di pretoriani che per qualche anno interpretarono in prima linea e poi hanno continuato a farlo sottotraccia la Weltanschauung di Vincenzo Visco, potentissimo ministro delle Finanze di svariati governi del centrosinistra, l’uomo di cui uno dei successori, Giulio Tremonti, disse: «Visco alle Finanze è come Dracula all’Avis».
Visco era quello che aveva deciso che gli italiani avrebbero dovuto pagare più tasse e con il sorriso sulle labbra; quello che non solo riformò il fisco italiano ma pretese con uno spericolato cambio di iniziale di impersonarlo; quello che dichiarò tolleranza zero per gli evasori; quello che voleva la tracciabilità di qualsiasi operazione finanziaria, fosse anche l’acquisto di una lavastoviglie. Quello che nel secondo governo Prodi da viceministro del suo amico Tommaso Padoa-Schioppa (lo scomparso economista che assicurò: «Pagare le tasse è bellissimo»), un giorno di fine aprile del 2008 decise di mettere le dichiarazioni dei redditi di tutti gli italiani online. Così, da un giorno all’altro, senza filtri né preavvisi. Fu un giorno di panici assortiti, un lungo martedì da contribuenti. Finì che il traffico di curiosi, invidiosi, coniugi separati e altri personaggi variamente interessati intasò il sito dell’Agenzia delle Entrate, Visco si spaventò, l’Autority per la privacy volle vederci chiaro e il traffico di hardcore fiscale fu di nuovo vietato.
La Orlandi arriva in via Cristoforo Colombo in quota Visco, che qualche giorno, fingendosi un pensionato appassionato della materia e invece dimostrandosi ancora potentissimo aveva così sentenziato: «Un governo di destra ha organizzato l’amministrazione finanziaria più repressiva, non a caso ci sono tutti questi ufficiali della Guardia della Finanza nell’amministrazione». Frase che ai più avveduti era apparsa come una pietra tombale per le ambizioni di Marco Di Capua, vice di Attilio Befera all’Agenzia delle Entrate e per un po’ in pole position per la sua successione, ma purtroppo per lui ex ufficiale delle Fiamme Gialle. E quindi l’obliteratura di un cambio di rotta deciso nella gestione del fisco italiano, ben visto anche da Matteo Renzi. Anche nel magico mondo delle tasse è di moda la rottamazione, e peggio per chi ci va di mezzo.
Orlandi non è una donna qualsiasi per chi ha a cuore il 730. È una specie di Sherlock Holmes degli evasori malgrado le apparenze da zia un po’ svampita che fa il limoncello. Cresciuta professionalmente nel sottobosco delle imposte, fa il suo salto di qualità nel 2006, quando dalla Toscana (dove era arrivata a essere capo dell’Accertamento regionale) sbarca a Roma al seguito del nuovo direttore delle Entrate, il Visco-boy Massimo Romano, per ricoprire il ruolo di dirigente generale dell’agenzia con le funzioni di direttore centrale aggiunto dell’Accertamento. La sua ossessione sono i grandi contribuenti, per fare le pulci ai quali riorganizza i controlli con tecniche poliziesche, come il tutoraggio delle imprese di grandi dimensioni. Poi come tutta la guardia vischiana cade in disgrazia con il ritorno al governo di Berlusconi, nel 2008. E finisce esiliata in Piemonte come direttore dell’agenzia regionale. Qui cerca di dare un volto umano al fisco inventandosi progetti per colf e badanti, per detenuti in procinto di riconquistare la libertà e diventare piccoli imprenditori (e quindi pagatori di tasse) e per i contribuenti di domani, ovvero gli studenti. Un’intenzione ufficialmente fallita, visto che l’agenzia delle entrate torinese nel corso del suo regno finisce nelle cronache locali dei giornali per: una busta con piombini e minacce assortite indirizzata a un funzionario; una dipendente aggredita da un uomo esasperato armato di coltello; un foro di proiettile che buca la vetrina della sede di via Paolo Veronese; impiegati che si timbrano a vicenda il badge per andare a fare la spesa in orario di lavoro. L’operazione-simpatia alla Orlandi non è riuscita, speriamo ora non le riesca l’operazione-antipatia.
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