Ancora un allarme sullo stato di salute dell’economia mondiale. Questa volta arriva dal numero uno del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, che nel suo intervenendo a un panel sul global economic outlook nell’ambito del Forum del Wef a Davos, ha spiegato:
“Il 2022 sarà un anno difficile ma non vediamo una recessione globale, e più probabile che questa possa avvenire nei paesi con fondamentali deboli o che non hanno recuperato a sufficienza dalla crisi pandemica o che dipendono in larga misura dalle importazioni di greggio dalla Russia o dalle importazioni di cibo che continuano a crescere”.
Nessuna indicazione precisa è arrivata sui paesi a rischio recessione anche se lo scorso aprile, il responsabile del Dipartimento europeo dell’Fmi, Alfred Kammer, aveva segnalato la possibilità concreta di una crescita piatta, se non addirittura in recessione per Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Nelle proiezioni di marzo, per l’Italia, il Fondo monetario aveva stimato un incremento del Pil del 2,3% nel 2022, con un taglio di 1,5 punti sulle previsioni di gennaio. In frenata anche il 2023, quando il Pil crescerà dell’1,7%, vale a dire mezzo punto in meno.
Georgieva ha poi spiegato che “rispetto alle nostre proiezioni di marzo, quando avevamo già abbassato le stime su circa l’80% dei paesi, si sono verificati gli scenari che avevamo paventato e speravamo di evitare, ovvero la guerra è proseguita e le conseguenze sono sempre più evidenti”. In ogni caso – ha aggiunto Georgieva – la nostra previsione per la crescita globale è del 3,6% e questa è ben lontana dal territorio di una recessione globale.
Allarme prezzi alimentari
Dalla direttrice del Fmi arriva, inoltre, un allarme sui prezzi alimentari. Lo “shock dei prezzi alimentari” – come ha affermato Georgieva – è, infatti, al centro delle preoccupazioni per le prospettive di crescita mondiale. Se i prezzi energetici hanno visto una correzione, quelli alimentari – ha sottolineato Georgieva – “continuano a salire, salire, salire”.
Il problema è che tutto dipenderà dagli sviluppi dell’aggressione russa in Ucraina, dalle decisioni di Pechino, dall’impatto che il dollaro forte avrà sulle economie emergenti (si rischia uno shock per i più indebitati in valuta estera). E anche dalle banche centrali. Se la Fed va dritta come un treno sulla sequenza di rialzi aggressivi dei tassi da mezzo punto, la presidente della Bce Christine Lagarde cerca di delineare la roadmap graduale di Francoforte: dopo un rialzo dei tassi a luglio, la Bce potrebbe “essere in grado di uscire dai tassi di interesse negativi entro la fine del terzo trimestre”.
Parole che implicano, col tasso sui depositi ora a -0,50%, due rialzi da 25 centesimi, uno a luglio, uno a settembre. “L’accordo è praticamente fatto, perché c’è consenso crescente”, spiega a Davos il governatore francese Francois Villeroy de Galhau. Che però indiscrezioni rimbalzate sulla Bloomberg s’incaricano subito di smentire: l’uscita di Lagarde avrebbe fatto arrabbiare i falchi, che vorrebbero una stretta più aggressiva.