ROMA (WSI) – I principi del neoliberismo hanno fallito. Sono stati forse sopravvalutati? A porsi questo interrogativo è un articolo scritto da alcuni economisti dell’Fmi, che ha fatto saltare sulla sedia diversi sostenitori del concetto di libero mercato e della cosiddetta “agenda neoliberale”. D’altronde l’Fmi è stato spesso criticato per essere stato un grande promotore di tale dottrina.
Ma ora, forse, starebbe cambiando pelle, e starebbe riprendendo in considerazione quello stesso principio di austerity che ha imposto a diverse economie mondiali, in passato e, più recentemente, nel caso della crisi dei debiti in Eurozona.
In questa crisi – mai finita e ancora in corso, grazie all’occhio severo della Germania ossessionata dai conti pubblici – l’Fmi è andata a braccetto con l’Ue e la Bce, creando insieme a loro una vero e proprio team che ha fatto a pezzi la sovranità nazionale dei PIIGS, i paesi con i conti più disastrati in Europa (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Così è nata la troika, pool di ispettori pronti a bacchettare e far saltare governi, a tassare i cittadini, a tagliare pensioni e sanità. Risultato: debiti ancora non risanati, disoccupazione, povertà, disperazione, disuguaglianze, suicidi, e una crescita del pil non pervenuta.
Forse ora l’Fmi ha capito. O qualcuno dell’Fmi ha capito, dal momento che la troika, un tempo espressione di sodalizio tra l’istituzione di Washington e gli altri ‘ispettori’ europei (Bce e Ue), ora è in forte difficoltà, divisa a metà, tra i falchi tedeschi che continuano a chiedere austerità, e l’Fmi, che invece ora auspica addirittura il perdono del debito della Grecia, presentando tra le opzioni la possibilità che Atene ripaghi il debito anche tra 60 anni.
La morte del neoliberismo
L’analisi appena pubblicata del Fondo Monetario Internazionale sembra avallare questa sorta di mutazione genetica. Scritta dagli economisti Jonathan D. Ostry, Prakash Loungani e Davide Furceri, mette in evidenza i limiti del neoliberismo, pensiero economico che propone, tra le ricette, il consolidamento fiscale, ergo, l’austerity.
Così si legge nell’articolo:
“Invece di assicurare la crescita (dell’economia), alcune politiche neoliberiste hanno ampliato le disuguaglianze, minacciando in questo modo le fasi di espansioni durevoli”. L’esempio che viene riportato come successo del neoliberismo è quello del Cile, “miracolo economico”, così come lo definì Milton Friedman nel 1982, per gli incredibili progressi compiuti nel suo percorso di crescita. Merito, per l’appunto, dell’adozione delle politiche del neoliberismo, della cosìddetta agenda neoliberale, imperniata sulla deregulation, sull’apertura dei mercati domestici inclusi i mercati finanziari alla competizione straniera e sul ruolo minore dello Stato, ed espressa attraverso l’attribuzione di “poteri” ai privati, dunque attraverso i processi di privatizzazione e le limitazioni alle competenze statali”.
Libertà economica, libertà soprattutto dallo Stato. Il liberismo originario era stato ridiscusso e riadattato alla realtà; di qui il nuovo pensiero economico di liberismo, il neoliberismo, che vide per l’appunto tra i più ferventi sostenitori Friedmann, il noto monetarista che auspicò un sistema flessibile di rapporti di cambio e che scrisse libri come “Capitalismo e Libertà”.
Ora l’Fmi sembra mettere in discussione il concetto di neoliberismo, che di per sé fu già una rivisitazione del liberismo. Ferma restando la strenua difesa del libero mercato, il neoliberismo è rimasto fedele ai principi di privatizzazione del patrimonio statale e ai tagli alla stessa spesa del welfare e in generale della spesa pubblica, ma è nato come dottrina che non esclude a priori e non del tutto un certo controllo dei mercati da parte dello Stato e che volge la sua attenzione anche al sociale. Detto questo, ora è criticato per aver esasperato invece il liberismo, di cui originariamente aveva voluto smussare gli angoli più forti.
L’Fmi ora ripensa alla sua stessa identità?
“La privatizzazione delle aziende di proprietà dello stato ha, in diversi casi, portato al miglioramento dei servizi, riducendo il carico fiscale sui governi. Tuttavia, ci sono aspetti dell’agenda neoliberale che non hanno dato i risultati sperati. La nostra valutazione dell’agenda si riferisce agli effetti di due politiche: quella che tende a rimuovere le restrizioni sui movimenti di capitali tra i confini di un paese (dunque il capitale viene reso libero di circolare) e il consolidamento fiscale, a volte chiamato “austerity”, per indicare quelle politiche che tendono alla riduzione dei deficit fiscali e dei debiti pubblici. Una valutazione di queste specifiche politiche (più che l’agenda neoliberale in senso ampio) è arrivata a tre conclusioni inquietanti”.
- I benefici in termini di aumento della crescita sembrano difficili da individuare, nel momento in cui si esamina un gruppo ampio di paesi.
- Prominenti sono i costi in termini di aumento delle diseguaglianze.
- L’aumento delle diseguaglianze a sua volta provoca danni alla sostenibilità della crescita. Anche se il solo o principale scopo dell’agenda liberale fosse quello della crescita, i sostenitori di questa agenda dovrebbero comunque prestare attenzione agli effetti di distribuzione (della ricchezza).
A un certo punto il caso dell’Europa è chiaramente affrontato:
“Sicuramente, molti paesi (come quelli del Sud Europa) sono costretti ad avviare un processo di consolidamento fiscale, dal momento che i mercati non permettono loro di rifinanziarsi. Ma il fatto che ci sia bisogno di consolidamento fiscale in alcuni paesi, non significa che tutti i paesi abbiano questa necessità (…) e, tra l’altro, in alcuni paesi i benefici che derivano dalla riduzione del debito, in termini di garanzia contro una eventuale futura crisi fiscale, sono decisamente bassi, anche nei casi di elevato livello del rapporto debito/Pil. Per esempio, tagliare il rapporto debito/Pil dal 120% al 100% nel corso di pochi anni riduce in modo decisamente lieve il rischio che una crisi colpisca il paese”.
E l’ammissione:
“Le politiche di austerity provocano danni anche alla domanda, peggiorando dunque l’occupazione e la disoccupazione”.
Conclusione: l’Fmi inizia a rinnegare se stessa? Se fosse così, sarebbe un grave colpo per la Germania, ma un sollievo per tutto – o quasi – il resto dell’Europa.