Società

FONDI ITALIANI:
I PERCHE’
DI UNA DEBACLE
SENZA FINE

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Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco passa per una persona attenta alle regole e tutta d’un pezzo, di certo poco incline alla compassione, almeno nel suo lavoro. Eppure questa volta anche l’animo di Visco si è intenerito quando ha constatato l’ennesima deblacle dei fondi d’investimento venduti in Italia, che hanno perso nel solo mese di gennaio ben 5,8 miliardi di euro di sottoscrizioni. Il ministro ha subito diramato una nota in cui s’impegna a far passare rapidamente la legge delega che dovrebbe parificare il trattamento fiscale dei fondi esteri rispetto a quelli italiani, oggi penalizzati.

L’intenerimento di Visco è dovuto anche al fatto che fu lui, come ministro delle Finanze durante l’esecutivo D’Alema nella seconda metà degli anni Novanta, a riformare la tassazione dei fondi italiani rendendola più forte rispetto a quella degli analoghi strumenti esteri. Ma non è neanche tutta colpa sua, perché prima di andarsene creò uno strumento, detto ‘equalizzatore’, con cui di fatto parificò le due tassazioni. Purtroppo per lui e per i gestori dei fondi italiani, il nuovo ministro Tremonti annullò l’equalizzatore (uno strumento per la verità molto macchinoso) in attesa di una riforma globale della tassazione delle rendite finanziarie che poi non arrivò mai.

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Ma l’imposizione fiscale sui fondi, se spiega molte cose, non spiega tutto. E lo riconosce lo stesso Visco, parlando di questo fatto come di una concausa «che sta alla base di notizie negative che si susseguono sulla raccolta di risparmio da parte di questo strumento finanziario».

E le notizie negative, per i fondi di diritto italiano, durano ormai da tempo immemorabile. Basta pensare che tra il 2002 e il 2006 hanno perso qualcosa come 55 miliardi, andati tutti a favore di strumenti esteri e ‘roundtrip’, come si chiamano in gergo i fondi di diritto estero (soprattutto lussemburghesi e irlandesi) creati però da banche italiane. Il patrimonio gestito dai fondi italiani, in un periodo florido per le Borse di tutto il mondo com’è quello fra il 2002 e il 2006, è rimasto stabile, circa 374 miliardi.

Nello stesso lasso di tempo i roundtrip hanno raddoppiato il proprio patrimonio, da 100 circa 200 miliardi. Gli esteri hanno addirittura quadruplicato la propria presenza in Italia da 21 a quasi 80 miliardi. L’Italia è diventata terra di conquista per tutte le società di gestione del risparmio del mondo. Tanto che nel 2006 l’Italia è diventata il paese che in Europa ha avuto la maggior penetrazione di fondi esteri. E lo sarà ancor di più nei prossimi mesi e anni. Perché ormai gli argini sono rotti, la marea che viene dall’estero inonderà sempre di più la penisola italiana senza incontrare resistenze.

Anche le banche italiane hanno ceduto su questo fronte. Ormai sono anni che quasi tutti i nuovi fondi che arrivano sul mercato, anche se creati da banche italiane, sono di diritto lussemburghese o irlandese. «Il Lussemburgo dice Eugenio Namor, amministratore delegato di Eurizon Capital, l’sgr di Intesa Sanpaolo, oggi il primo gruppo in Italia per asset management è il più grande centro di produzione in Europa accanto all’Irlanda. Se si vuole fare attività cross border bisogna essere presenti».

Namor mette il dito sulla piaga di un altro problema dei fondi italiani: la mancanza di una piazza finanziaria in grado di supportarli. Ma a spiegare il disastro dei fondi di diritto italiano c’è anche la diversa, e più leggera, fiscalità per le sgr, e la maggiore snellezza e rapidità delle procedure burocratiche per far arrivare sul mercato i nuovi fondi che si trovano all’estero.

Dunque si torna al problema iniziale: la fiscalità sui fondi (e non sulle Sgr) è solo uno dei problemi. Una volta sistemato, come promette fare Visco, non è detto che basti. Al contrario, è molto probabile che non basti.

Ma il lento e inesorabile declino dei fondi di diritto italiano è soltanto uno degli aspetti di una vicenda, quella del risparmio gestito, che diventa per l’Italia sempre più drammatica. Infatti nel pessimo dato di gennaio c’è anche qualcosa, se si vuole, di ancora più preoccupante che una perdita di peso dei fondi italiani. C’è un crollo verticale della raccolta di tutti i fondi, anche di quelli roundtrip (per quelli esteri il dato viene elaborato con qualche mese di ritardo).

Che cosa significa? «Significa spiega Fabio Galli, direttore generale di Assogestioni, l’associazione delle sgr che è finalmente emersa chiaramente, a gennaio, quella che è una linea di tendenza sotterranea degli ultimi anni: lo spostamento dei clienti dai prodotti di risparmio gestito (cioè fondi d’investimento) ad altri prodotti come i certificati o le note strutturate. Si tratta di prodotti a gestione passiva e in genere a capitale garantito, che producono per le banche che li vendono ricavi immediati molto più alti. Ma che nel medio periodo non danno un reddito costante come i fondi». Un aspetto che forse gli analisti non hanno ancora focalizzato bene quando giudicano i conti degli istituti di credito.

Ma c’è di più. Questo switch tra fondi e prodotti strutturati non dà ai clienti la possibilità di vedere chiaramente quali sono i costi effettivi, tant’è vero che la questione è stata posta di recente in seno al Cesr, l’associazione delle ‘Consob’ europee, perché la tendenza italiana comincia a essere percepita anche altrove, in Germania per esempio.
Né si riesce ad avere, come nel caso dei fondi d’investimento, un monitoraggio in tempo reale di quanti soldi vengano destinati a questi strumenti: «Il dato viene elaborato a posteriori con un anno di ritardo, sulla base dei bilanci delle banche», spiega Galli. Il tema, insomma, è che a livello italiano ed europeo si va verso forme di risparmio meno trasparenti e meno verificabili di prima.

L’ultimo problema è tipicamente italiano. I risparmiatori hanno investito, in questi anni di boom delle borse, massicciamente in fondi obbligazionari, che sono andati male per la risalita dei tassi. Molti switch tra fondi e prodotti strutturati nascono dalla delusione per i rendimenti bassi da una parte ma anche dalla paura delle borse dall’altra. «Ma rinunciare a investire in azioni e puntare su prodotti risk free dice Galli significa che Paese s’impoverisce. A livello macroeconomico un Paese che si accontenta di un rendimento del 2,53,5 per cento invece del 5 come in un portafoglio bilanciato fra azioni e obbligazioni diventa più povero». Gli italiani risparmiano ancora molto ma, a quanto pare, non sanno investire i propri soldi.

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