Roma – La Francia ha dato un ultimatum: due mesi per cambiare regime, o potrebbe arrivare una supertassa. Il Parlamento inglese ha chiesto di vedere i conti. E ora, ad indagare sulle (poche) tasse pagate da Google, inizia anche l’Italia. Perché sul giro d’affari nel nostro Paese, più di 500 milioni di euro di pubblicità venduta, il motore di ricerca non avrebbe versato al fisco neppure un euro: né Ires, né Irap, né Iva. “Alcune imprese si sottraggono al pagamento delle imposte in misura adeguata alla loro capacità contributiva”, ha denunciato la scorsa settimana la Guardia di finanza. E ieri, in commissione Finanze alla Camera, la segnalazione è stata rilanciata dal deputato Pd Stefano Graziano. Per chiedere al ministro Grilli se il governo intenda adottare contromisure.
Vale per Google e i suoi servizi pubblicitari. Ma anche per altri big dell’economia digitale, come Facebook, Apple e Amazon. Che in rete non conoscono confini fisici, ma si muovono con agilità anche tra quelli fiscali. “Utilizzano tecniche collaudate”, spiega Carlo Garbino, professore di Diritto tributario alla Bocconi. “Stabiliscono la propria sede in Paesi con regimi vantaggiosi, come l’Irlanda. O caricano costi aggiuntivi in quelli dove le tasse sono più alte”. Tutto legale, come ribadisce un portavoce di Google, sottolineando il “sostanziale contributo dell’azienda all’economia europea”. Ma forse non equo in un periodo di economie generalizzate. “Chi raccoglie entrate in un Paese, lì deve pagare le tasse, è una questione di giustizia sociale”, spiega Graziano. In Italia Google ha da poco aperto una sede, a Milano, ma dedicata solo a marketing e assistenza. Le pubblicità sono invece fatturate a Dublino, dove l’aliquota sulle imprese è al 12,5%. E grazie a una triangolazione con Amsterdam e le Bermuda, battezzata “sandwich olandese”, nel 2011 ha pagato 8 milioni di tasse su 12,5 miliardi di ricavi.
Ora la palla passa al governo che potrebbe ispirarsi alla norma “anti-Ryanair”. Ridefinendo il concetto di “base aerea”, il decreto sviluppo in discussione al Senato impone alla compagnia di versare ai dipendenti italiani pieni contributi, anziché quelli, inferiori, previsti dalle norme irlandesi. Nel caso di Google però si tratta di tasse sugli introiti: la legge europea garantisce alle aziende la libertà di scegliere in quale dei 27 Stati membri stabilire la propria sede fiscale. “Per questo l’ideale è una soluzione comunitaria”, conclude Graziano.
La scorsa settimana Francois Hollande ha incontrato a Parigi il numero uno di Google Eric Schmidt, per mediare sulla querelle che oppone la società agli editori francesi. La loro richiesta è che il motore di ricerca condivida una percentuale dei ricavi che ottiene indicizzando i loro contenuti. In Inghilterra una commissione parlamentare ha indagato sulle poche tasse pagate da Google, Amazon e Starbucks. E a Bruxelles la Commissione starebbe valutando come correggere alcuni paradossi del fisco europeo.
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