Impresa

Fuga imprese: unica strada per sopravvivere?

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NEW YORK (WSI) – Uno stato inefficiente, la totale mancanza di una politica industriale, una burocrazia opprimente, un costo del lavoro ipertrofico e una pressione fiscale sulle imprese che ci colloca all’ultimo gradino in Europa, sono alcuni dei motivi che oggi spingono sempre più gli imprenditori italiani a valutare l’opportunità di produrre all’estero.

La crescente impossibilità di fare impresa in Italia è un dato reale e lo spostamento delle imprese nazionali verso paesi più competitivi, iniziato come un fenomeno silenzioso e isolato, si sta trasformando in un trend concreto e incalzante. Se qualche anno fa l’insediamento in un paese dell’estero era percepito come una possibilità, oggi – a causa della contingenza politico-economica che stiamo vivendo – sembra diventata una necessità per chiunque voglia mantenere viva la propria impresa.

A questo proposito però, è necessario ricordare che le cause dell’“internazionalizzazione produttiva” trasbordano l’infelice contingenza italiana. E non per questo le ragioni che spingono a produrre all’estero sono meno forti. La questione è semplice: per quale motivo, in una piazza sempre più globalizzata e connessa, l’Italia dovrebbe fare del suo business una questione di confini geografici?

Pur quanto si cerchi di essere refrattari all’idea, la globalizzazione è una realtà e bisogna prenderne atto. Il mercato italiano è diventato sempre più piccolo e pensare in modo “territoriale” come succedeva in passato ha perso di senso.

E’ innegabile che moltissime aziende – soprattutto del Nord Italia – facciano la maggior parte del proprio fatturato esportando sui mercati stranieri e anzi, oggi il vero volano dell’industria manifatturiera italiana è l’export.

Se quando si produce è ormai obbligatorio pensare di esportare il prodotto, allora acquista senso fare la scelta di avviare la produzione localmente, strategia tanto più vera per tutti quei prodotti cosiddetti “poveri”, che necessitano per forza di cose di un mercato domestico a causa dell’incidenza troppo pesante dei costi del trasporto.

Produrre localmente è spesso una scelta obbligata non solo per risparmiare sui costi di logistica ma ancor di più per riuscire a penetrare in maniera efficace i mercati di riferimento. Fuori dall’Europa infatti i paesi hanno adottato ingombranti misure protezionistiche, sia quelle dirette come i dazi doganali sia di tipo indiretto come ad esempio il caso della Serbia, dove per vendere apparecchiature meccaniche occorre produrle almeno in parte localmente. Insomma, per commercializzare in modo effettivo su certi mercati, occorre esserci fisicamente presenti.

Consideriamo anche un’ulteriore variabile: per alcuni imprenditori essere vicini al cliente finale è una necessità. E’ il caso, sempre più frequente, di solide aziende nazionali che vincono gare d’appalto per diventare fornitori ufficiali di grosse compagnie e di multinazionali; in questo caso bisogna prepararsi a seguire il proprio cliente per essere capaci di fornirlo direttamente in loco.

In un momento come questo, guardare all’estero è l’unico modo per conservare il know-how delle imprese italiane e per ritrovare competitività sul mercato globale. Ma, al di là della tanto pubblicizzata “fuga” degli imprenditori dalla terra madre e dal generale clima di sfiducia che si respira tra chi fa impresa, l’apertura all’estero non deve essere vista automaticamente come un dato negativo: delocalizzare non corrisponde sempre a un disimpegno sul territorio italiano ma a una legittima espansione anche su altri mercati.

Un’operazione certo complessa che va affrontata dando priorità non
solo al risparmio sul costo del lavoro ma anche alla disponibilità di una manodopera qualificata e motivata, capace di mantenere gli standard qualitativi del “made in Italy”.

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