ROMA (WSI) – Non c’è pace all’ombra del Leone. A un anno e mezzo di distanza dalla traumatica rottura con l’allora amministratore delegato, Giovanni Perissinotto, le tensioni tra i soci di Generali non trovano requie. Dinanzi alla notizia – anticipata lunedì scorso da Affari & Finanza – del passaggio di un dossier da Consob e Ivass alla procura della Repubblica di Trieste, dossier che coinvolge gli azionisti veneti di Ferak e Effeti, i diretti interessati replicano senza remore. Ricordiamo che al tandem Ferak-Effeti fa capo attorno il 3,2% della compagnia assicurativa e che varie indagini interne ne contestano in radice i rapporti d’affari con Trieste.
«Ho l’impressione che sia stato puntato un faro su di noi per evitare di illuminare altre situazioni», commenta Enrico Marchi, presidente di Finanziaria Internazionale, che possiede il 24% di Ferak (che a sua volta controlla Effeti, condivisa con Fondazione Cr Torino). Che sarebbe a dire: perché non è considerata la trama dei rapporti con altre parti correlate come Mediobanca, De Agostini, Caltagirone? Rapporti esaminati peraltro in un report ad hoc nel luglio scorso e da cui nulla di anomalo sarebbe emerso. Il dialogo a suocera perché nuora intenda, se l’interpretazione non è azzardata, pare chiamare in causa pure Mario Greco, che dall’agosto 2012 riveste i panni di capo azienda a Trieste.
Al suo arrivo in Generali, infatti, Greco ha fatto passare ai raggi x da società di consulenza esterne, studi legali, sindaci e revisori, i conti dell’annata di cui avrebbe dovuto firmare il bilancio. E allora è emersa la necessità di aggiustare le riserve in vari pianeti della galassia Generali, oltre che di identificare numerose svalutazioni. In particolare, un report consegnato nel marzo scorso da Kpmg e relativo esclusivamente a sette operazioni con soci veneti di Ferak e Effeti, ha spinto Greco a iscrivere a bilancio “in modo cautelativo” 234 milioni come perdite o accantonamenti. E proprio da questo report origina poi il faro acceso da Consob e Ivass, con relativa trasmissione dell’incartamento alla magistratura penale.
Viceversa il board di Generali ha deciso di non intraprendere alcuna iniziativa giudiziaria nei riguardi di Perissinotto e del suo braccio destro Raffaele Agrusti, poiché in sostanza i pareri legali non hanno ravvisato i presupposti per un’azione di responsabilità nei riguardi dell’ex ammini-stratore delegato e dell’ex direttore generale. Manca in particolare la quantificazione di un ipotetico danno, poiché le operazioni contestate sono vive, ossia riguardano investimenti il cui esito finale sarà visibile in quasi tutti i casi solo tra 3-4 anni.
Il che non toglie senso alle domande sulle ragioni per cui vari affari tra soci di Ferak e Generali siano transitati per società domiciliate in paesi impenetrabili. E non meno perplessità ha destato nel board triestino apprendere di avere in particolare una posizione da 180 milioni, tramite un fondo di investimento, nell’Ilva di Taranto, dove il 10% del capitale risale alla famiglia Amenduni. Kpmg nel marzo scorso ha stimato in 111 milioni la “potenziale area di rischio” nell’investimento su Ilva, rischio in effetti esponenziale date le condizioni di incertezza estrema in cui versa il colosso dell’acciaio.
Altro capitolo assai controverso attiene al bond convertendo, lanciato nel 2007 dalla holding di controllo di Palladio Finanziaria, che si chiama Pfh1, al servizio di un aumento di capitale da 300 milioni. Generali aveva sottoscritto 100 milioni dal collocatore Hsbc, salvo che Perissinotto nel 2011 ha chiesto e ottenuto da Pfh1 che riacquistasse tale quota del bond, nel frattempo però svalutata a 75 milioni. L’aumento di capitale in Palladio era stato da principio finalizzato ad acquisire la bresciana Hopa, fusione poi fallita perché la finanziaria bresciana andò nelle braccia della conterranea Mittel.
Palladio si concentrò su Ferak assieme a famiglia Amenduni, Finint, Veneto Banca, Zoppas. Ferak fin dalla sua genesi ha Generali come obiettivo quasi esclusivo (in portafoglio ci sono anche azioni di Mediobanca). Ma è in questione come Ferak e Effeti hanno conquistato tanto peso nell’azionariato della compagnia. Il documento di Generali intitolato “Sintesi degli esiti delle indagini in materia di investimenti alternativi” non esclude l’intenzione del top management di assicurare copertura finanziaria ad alcuni imprenditori “allo scopo di favorire l’acquisizione di azioni proprie”, manovra ovviamente a sostegno dei vertici manageriali stessi della compagnia triestina.
Insomma, secondo il report interno alla compagnia, Perissinotto avrebbe passato denari agli amici veneti per blindare se stesso, in un reticolo di favori e di azioni al di là dei poteri aziendali. Marchi obietta: «Bizzarra tesi pensare che Perissinotto potesse blindare se stesso con l’appoggio dell’1% di Ferak». E dopo avere sostenuto che «è normale per un grande gruppo come Generali intrattenere rapporti con i propri azionisti», Marchi cita niente meno che Cesare Geronzi alla pagina 157 di Confiteor: «Mediobanca da sempre sostiene i propri soci industriali sia concedendo loro il credito finanziario sia acquisendo partecipazioni nelle loro società».
Se non bastasse, a proposito del bond da 50 milioni sottoscritto da Generali in favore di Finint e in scadenza a gennaio, Marchi ri-cita il verbo di Geronzi a pagina 52 laddove si legge che «Generali hanno sottoscritto un prestito subordinato di 500 milioni di euro e un prestito obbligazionario di 624 milioni emessi entrambi da Mediobanca». Le parabole evangeliche subliminalmente evocate hanno a che fare con pietre e travi.
Ma la merchant bank veneta non manca pure di argomentare nel merito, con il conforto di cifre e poche parole. A fronte di un investimento di 6,16 milioni per il 10% di Finint, Generali ha ricevuto dividendi per 5,13 milioni e oggi può contare su un patrimonio netto markto- market pari a 22,3 milioni con un Irr del 15,5%, mentre le quote sottoscritte nei tre fondi di investimento Neip hanno avuto rendimenti variabili tra il 10 e il 18,7%; il fondo Finint Abs1 risulta invece “in perdita non avendo Generali partecipato ad aumenti di capitale dopo la sottoscrizione iniziale”.
Non è breve nemmeno la lista delle attività condivise da Generali e Palladio sul versante dei fondi di private equity. Tutto nasce nel 2011, quando Palladio rileva da Generali i resti del fondo Aliance dedicato a investimenti in infrastrutture. Fondo affatto dinamico, tant’è che Palladio liquida il management e avvia il rilancio con l’acronimo Vei (e un commitment di Generali fino a 150 milioni). Il primo investimento portato a termine, su una serie di porti turchi per un valore di 100 milioni di dollari, ha avuto un Irr vicino al 20%. Ma vi sono altri fondi in titoli quotati che bene non vanno e che fanno storcere il naso a chi guida oggi il Leone.
Ma ancora da Marchi emerge una difesa netta di Perissinotto, di cui è oltretutto amico personale da antica data: «Il lavoro dell’ex amministratore delegato dev’essere giudicato nel suo complesso. Se vi sono stati degli investimenti che hanno portato minusvalenze bisogna anche evidenziare come le recenti cessioni di attività da lui promosse a suo tempo stiano generando consistenti e ben superiori plusvalenze. Il tempo è galantuomo». Su quest’ultimo concetto potrebbe convenire pure Mario Greco.
Il top manager non discute le performance dei fondi di private equity condivisi con Palladio e Finint, piuttosto ha preso in considerazione i rilievi mossi da Kpmg alla voce “fondi alternativi”. Ma non gli garba affatto gli sia attribuita la veste del giustiziere dei soci coccolati dal suo predecessore e non fa che ripetere come – al 2012 – i consulenti abbiano rilevato operazioni contestabili solo a carico dei soci Ferak e Effeti. Se nelle annate precedenti altre ve ne furono, è materia da archivisti, da storici o da pm caparbi.
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