Si complica la vita per le multinazionali abituate a dribblare il Fisco di tutto il mondo. Da quest’anno debutta infatti in molti Paesi la Global Minimum Tax, lo strumento con cui i governi firmatari puntano ad introdurre un’aliquota minima effettiva del 15% sui profitti generati dalle grandi aziende con un fatturato annuo superiore a 750 milioni di dollari e che, secondo l’Ocse, potrebbe portare a un aumento del gettito fiscale mondiale di 220 miliardi di dollari. Questa nuova misura mira ad assicurare che le multinazionali paghino tasse adeguate nel Paese in cui operano, non limitandosi a quello in cui hanno la residenza fiscale.
Per raggiungere questo obiettivo 139 Paesi, sotto l’impulso dell’Ocse, hanno siglato nel luglio 2021 un accordo che impegnava gli stati in questa direzione. Da allora è cominciato un lungo iter di adozione nelle diverse giurisdizioni fino al 2024, quando la misura è diventata finalmente operativa.
Tra gli Stati in cui la tassa minima debutta da gennaio ci sono già i Paesi dell’Unione Europea, Italia compresa, ma soprattutto Irlanda e Lussemburgo, il Regno Unito, la Norvegia, l’Australia, la Corea del Sud, il Giappone, la Svizzera e il Canada. I Paesi dell’Unione Europea più piccoli, nei quali hanno sede meno di dodici multinazionali soggette al nuovo regime, possono aspettare altri sei anni. Mancano invece all’appello Stati Uniti e Cina, che malgrado abbiano firmato l’accordo nel 2021 ancora non si sono impegnati in riforme specifiche in questo senso.
L’impatto della Global Minimum Tax si prevede significativo, con una riduzione per le aziende degli incentivi ad utilizzare paradisi fiscali e per i Paesi di diventare tali, come evidenziato da Jason Ward del Centre for International Corporate Tax Accountability and Research.
Ad esempio, in alcune nazioni come l’Irlanda, il Lussemburgo e l’Olanda, le imposte sulle multinazionali sono state finora molto basse e hanno incentivato, soprattutto in Irlanda e Lussemburgo, l’apertura di holding e “quartier generali” ai quali venivano spesso attribuiti, soprattutto nel caso di gruppi attivi online, anche i ricavi realizzati in altre nazioni. Tanto che il fenomeno ha raggiunto dimensioni tali da alterare, e rendere quasi inservibile, lo stesso calcolo del PIL di quelle economie.
L’accordo del 2021 si basa su due pilastri. Il primo, ancora in fase di recepimento, si concentra principalmente sui giganti tecnologici con ricavi globali superiore a 20 miliardi di dollari (che potranno scendere a 10 miliardi in dieci anni) e un margine di redditività di almeno il 10%, e mira a redistribuire correttamente utili e relative imposte, indipendentemente dalla presenza fisica sul territorio. In altre parole, è relativo a una “redistribuzione” formale di una parte dei profitti in base alla nazionalità dei consumatori, per ovviare ai problemi generati dagli acquisti online, tutti attribuiti alla casa madre. Il secondo pilastro, la Global Minimum Tax, si applica invece a tutte le aziende con un fatturato superiore a 750 milioni di dollari.
L’importanza di uniformare il trattamento fiscale delle multinazionali è avvertita da tempo: già nel ’92 l’Unione Europea aveva studiato un’intesa che poneva il livello minimo tra il 30% e il 40%. È dal 2019, però, che l’Ocse ha iniziato a proporre in modo politicamente incisivo un accordo a livello globale.
L’applicazione della Global Minimum Tax in Italia e Svizzera
In Italia la norma è stata appena adottata attraverso un decreto legislativo ad hoc, per rispettare la direttiva 2022/2053 dell’Unione Europea. Questa direttiva introduce due regole volte a contrastare le strategie delle multinazionali per evitare le tasse nazionali. La Income Inclusion Rule (IIR) impone un’imposta integrativa da versare da parte delle società in Italia qualora le proprie controllate paghino una minore tassazione in un Paese a fiscalità di vantaggio. Nello specifico, alle controllanti viene chiesto di versare la differenza tra il 15% e l’eventuale minore tassazione versata dalle proprie società all’estero.
La seconda regola, la Undertaxed Profit Rule (UPR), agisce invece quando la prima regola non può essere applicata perché una delle entità delle società, inclusa la casa “madre”, opera in uno Stato in cui la norma non è in vigore.
La regola prevede quindi ad esempio la possibilità di dedurre fiscalmente i pagamenti effettuati verso entità a cui non si applica la IIR, riequilibrando così l’effetto del mancato pagamento dell’imposta.
La Svizzera ha invece dovuto modificare la propria costituzione con un voto referendario per poter recepire l’intesa internazionale. Proprio qui sono emersi i primi limiti dell’accordo: restano in vigore trattamenti di favore per le holding, relative a dividendi e capital gain. Analogamente dovrebbero restare in vigore, un po’ dappertutto, forme di crediti fiscali. Le norme, insomma, riducono ma non eliminano il fenomeno della concorrenza fiscale tra le nazioni. La stessa intesa prevede in via generale deroghe per le multinazionali che realizzino investimenti diretti, non strettamente finanziari, per non disincentivarli. Anche per questo motivo la nuova imposta potrebbe anche avere alcune conseguenze non desiderate: una corsa ai sussidi per gli investimenti diretti, oltre un forte aumento della burocrazia e del contenzioso fiscale.