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I 7 PECCATI CAPITALI CHE IL TORO
NON PERDONA

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(WSI) – Come fa notare Giuliano Cesareo, ad di Meliorbanca Asset Management, «per la prima volta dall’inizio del millennio la clientela chiede di alzare il profilo di rischio del proprio portafoglio, privilegiando scelte più aggressive». No, non è tardi perché, sottolinea il gestore, «oggi mi sento di suggerire l’investimento in azioni europee piuttosto che immobili o bond». D’accordo. Ma resta il fatto che molti arrivano in ritardo all’appuntamento con il Toro. Non è, però, solo un problema di clientela retail. Gran parte della comunità finanziaria, durante il 2006, ha compiuto quelli che, per sdrammatizzare, potremmo definire i Sette Peccati Capitali sotto il segno del Toro. Consoliamoci pensando alle occasioni mancate dai guru di tutti i Continenti, confessando i loro «peccati».

I. LA PAURA La cantonata che brucia di più riguarda l’atteggiamento psicologico che ha bloccato i risparmiatori, almeno quelli europei. Immersi in un cupo pessimismo, gli investitori non si sono accorti dello spettacolare boom borsistico che stava prendendo forma nel Continente. Se ci si limita alla sola Italia, i dati dei fondi comuni mostrano un trend disarmante. Le famiglie hanno ritirato dalle linee azionarie ben 5,4 miliardi di euro nei primi 10 mesi dell’anno. E come reagirono alla breve correzione di maggio-giugno? Alle prime avvisaglie del ribasso (che si è rivelato temporaneo) scapparono a gambe levate. A maggio i riscatti toccarono i 3,1 miliardi di euro, mentre a giugno addirittura i 4,3. Da allora le quotazioni sono salite in linea retta del 16 per cento. Non che nel resto d’Europa le cose abbiano preso una piega diversa. Infatti in quel periodo il fuggi-fuggi dalle gestioni azionarie pareggiò l’apice del settembre 2001.

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II. IL PESSIMISMO Sono anche pochi gli economisti di professione ad aver previsto per tempo la forte ripresa del dinamismo dell’economia del Vecchio Continente che si è verificata nel corso del 2006. Nel dubbio, gli addetti ai lavori si sono barricati dietro un pessimismo di maniera. Il Pil della zona euro chiuderà i 12 mesi con un tasso di sviluppo suppergiù al 2,7%; nessuno lo prevedeva a dicembre. In Italia, complici le tensioni pre-elettorali, le cassandre sono state in maggioranza schiacciante. Con il risultato di non aver capito che il mercato stava preparando la riscossa. Per tutti costoro cade a pennello la famosa freddura di Winston Churchill secondo cui gli economisti usano le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni: più per supporto che per la luce.

III. IL DIAVOLO DELL’INFLAZIONE Un’altra castroneria? Che l’inflazione avrebbe risollevato la testa in risposta al rialzo delle materie prime e alla robusta espansione del binomio America-Asia. In verità, la Banca centrale europea ha svolto un lavoro eccellente nel tenere il costo della vita all’interno di una banda di oscillazione accettabile. Dal 2001, il livello dei prezzi cresce fra il 2 e il 2,5%, e di recente è scivolato sotto il 2 per cento. Se si escludono le componenti volatili di energia e alimentari, il carovita fluttua attorno all’1,5 per cento. In America, la Federal Reserve si è molto impegnata nel garantire la stabilità della moneta con una fitta e persistente campagna di normalizzazione dei tassi d’interesse. A un certo punto la lotta sembrava avere esito incerto, ma oggi, grazie anche al calo del prezzo dei combustibili, sembra che l’inflazione stia piegando la testa.

IV. ANGOSCIA DA BOND In parte figlio dell’errore sull’inflazione è l’abbaglio sui titoli del debito. Sono anni che gli esperti in obbligazioni governative ripetono il loro martellante ammonimento sul fatto che il reddito fisso sarebbe sul punto di crollare. Un buon punto di riferimento è per esempio il sondaggio mensile della Merrill Lynch. La famosa casa di brokeraggio interroga mensilmente quasi 300 professionisti dell’investimento sulle prospettive dei vari mercati finanziari. Ebbene, nell’indagine del dicembre scorso, ben il 65% degli interpellati dichiarava di essere sottopesato in obbligazioni. Come a dire la peste bubbonica. In effetti i titoli federali Usa a 10 anni sono calati durante il primo semestre, fino a rendere in luglio il 5,2 per cento. Dopo di che hanno però recuperato la perdita. Su questa sponda dell’Oceano, invece, la cedola del decennale tedesco è passata dal 3,4% al 3,7 per cento. Insomma, la cautela ci stava, il panico no.

V. AVIDITÀ DA OIL Scorrendo il sondaggio di dicembre della Merrill Lynch si scoprono altre chicche che, col senno del poi, forse faranno un po’ arrossire la comunità finanziaria. Si consideri il settore dell’energia tanto per incominciare: a dicembre, il 30% degli strateghi specializzati sull’Europa lo considerava il comparto da sovrappesare. Solo i titoli assicurativi godevano di più alta stima. Erano i giorni in cui il petrolio aveva inserito il pilota automatico. Una corsa che sarebbe proseguita per tutto l’inverno fino a culminare con il picco di agosto a 80 dollari al barile. E pur tuttavia, le principali compagnie petrolifere al di qua dell’Atlantico non sono riuscite a raggiungere nuovi massimi significativi. Le quotazioni di Eni, ad esempio, sono rimaste al di sotto della resistenza di 25 euro. E ancora non sono riuscite a superarla. La sezione dei petroliferi è terz’ultima nella classifica di performance per il 2006.

VI. I SAN TOMMASO DELL’AUTO Diversamente dalle oil company, parecchi settori del mercato azionario hanno abbondantemente superato le previsioni degli analisti. La vendita al dettaglio rappresenta un caso eclatante. L’automotive, sottopesato dal 47% degli esperti a dicembre, è risultato il sesto miglior segmento su 18 della Borsa transcontinentale. Le utility, che erano invece disprezzate dal 45% del campione, si sono piazzate quarte. Risorse di base e automobili, che pure stazionavano in fondo alla graduatoria di preferenza, oggi sono seconde e quinte nei rialzi del 2006. Ma fino all’ultimo gli analisti non hanno creduto al turnaround di Fiat.

VII. L’ERESIA DEL GIAPPONE Sul fronte internazionale, la madre di tutte le corbellerie (col senno del poi naturalmente) è stata la raccomandazione quasi unanime in favore della Borsa nipponica. Sempre attingendo al sondaggio della Merrill Lynch, si scopre che una percentuale record del 26% degli intervistati considerava il Giappone l’area a maggiore potenziale di apprezzamento. A ciò si aggiungevano stime altrettanto promettenti sulla valuta. Lo yen – diceva il 40% degli intervistati – deve aumentare di valore perché sottovalutato in modo sfacciato. Senonché le cose sono andate diversamente. Il Nikkei225, cioè l’indice della Borsa di Tokyo, è rimasto inchiodato a 16mila punti, mentre lo yen si è avvitato in una spirale discendente nei confronti dell’euro, perdendo sinora l’8 per cento. Insomma, le piazze europee hanno surclassato quella giapponese di almeno il 25% grazie ai dividendi, all’impennata delle quotazioni e al cambio forte. Forse era meglio starsene a casa.

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