C’è stato qualche giorno fa l’assemblea annuale dell’associazione degli industriali costruttori di macchine, non è importante quali in particolare . Ad essa è seguito un convegno sull’argomento del giorno: Industria 4.0.
È stata presentata un’indagine, eseguita presso alcuni associati, sul grado di conoscenza di queste tecnologie e sul loro uso. E’ seguito un dibattito di esperti, professori universitari e un solo imprenditore, coordinato dal giornalista di grido del momento.
Cosa si è detto di tanto importante e indicativo sullo stato generale delle nostre industrie?
A differenza di quanto ci propone la narrazione mediatica, ovvero che questa opzione tecnologica, come altre, è un obbligo e costituisce la panacea per tutti i mali delle aziende, un qualche livello di attenzione è stato sollevato. Fatto l’investimento come e quanto ritornerà? Quale sarà l’impatto organizzativo? Quali tecnologie scegliere e, soprattutto (madre di tutte le domande), per farci cosa?
Quest’ultimo interrogativo è il più emblematico. Infatti, come ho avuto già modo di dire, la tecnologia non è una strategia, ma un fattore abilitante di essa. Purtroppo tra le possibili strategie che Industria 4.0 può aiutare a realizzare, sono stati identificati solo un miglior servizio al cliente, un abbassamento dei costi, una maggiore flessibilità.
Nessuno, ahinoi, ha citato la strada maestra, la strategia regina che ogni impresa dovrebbe cercare di perseguire sempre: quella “genesi imprenditoriale” che si realizza creando mercati che prima non esistevano. E se l’Industria 4.0 viene percepita solo come un modo per servire meglio il cliente, ne siamo ben lontani.
Come giustamente ricordava il pluricitato Steve Jobs “non è mestiere del cliente sapere ciò che vuole”. Non è una dichiarazione di arroganza ma, al contrario, di umiltà e responsabilità. Di umiltà perché mantiene lo spirito di servizio dell’impresa in una dimensione più profonda (e feconda per tutti): non chiedo al cliente cosa vorrebbe ma propongo nuovi modi di intendere la realtà, di qualsiasi spicchio di essa stiamo parlando, attraverso la creazione di nuovi significati anche attraverso prodotti, o servizi, esistenti. Di esempio, a tal proposito, l’affermazione di Enzo Ferrari, che umilmente affermava “mi sono permesso di giudicare l’automobile come una conquista di libertà per l’uomo”.
Ferrari non inventò l’auto e nemmeno quella sportiva, ma certamente è stato capace di trovargli un significato nuovo che è stato talmente profondo da sopravvivere al suo inventore. Ci sono molte auto di lusso, Porsche, Aston Martin, Bugatti, ecc., ma volete mettere il senso di libertà che ispira una Ferrari?
Ferrari non è andato in giro a chiedere quale auto sportiva i clienti volevano, ha fatto quella che piaceva a lui. I clienti non hanno idea di cosa è un auto sportiva, lui si è permesso di proporla. La dichiarazione di Jobs inoltre è di responsabilità perché, indirettamente, ricorda che il rischio, in questa attività di proposta e costruzione del “nuovo mondo”, è tutto dell’imprenditore.
Dunque le caratteristiche dell’imprenditorialità rigeneratrice sono “servizio e rischio”. Invece si è parlato di supporto agli investimenti, di “cultura dei fatti”, di “concretezza”, di “pratica”, tutte cose che hanno portato il sistema industriale italiano, come ricorda una semplice statistica citata il cui autore è Vincenzo Boccia presidente di Confindustria, ad avere il 20% di aziende che vanno bene, il 60% così e così, il 20% male. Detto in altri termini l’80% delle aziende ha urgente bisogno di ritornare ad una strategia di genesi imprenditoriale.
Forse è ora, per quell’80%, di smettere di “fare” cose inutili o che interessano sempre meno, producendo risultati scadenti e chiedendo il supporto delle comunità (banche, stato, lavoratori, ecc.), e di fermarsi a pensare come tornare a fare gli imprenditori, quelli veri, come certamente sono stati i loro padri e nonni che hanno costruito quelle aziende che, all’epoca, andavano tutte bene.
E che oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, vanno “così e così”!