ROMA (WSI) – C’era una volta – neanche tanto tempo fa – Cesare Geronzi, magnate che “nell’arco di sei decenni, è arrivato ai vertici della finanza italiana. Simbolo del capitalismo – malato dell’Italia -, basato non sul libero mercato, sulla classica mano invisibile di Adam Smith, quanto piuttosto sull’intreccio di conoscenze, sulla creazione di lobby spudorate, sui servetti di Geronzi.
E’ a questo sistema che il Financial Times ha dedicato un articolo: “Italian Business. No Way Back”, firmato dalla penna di Rachel Sanderson. Ovvero “Affari in Italia. Punto di non ritorno”. E meno male, diranno in molti.
I servi di Geronzi erano dappertutto, lo seguivano come se fossero la sua ombra, sia quando creò Capitalia – noto il coinvolgimento nel 2004 nella crisi del sistema finanziario, causa la crisi in Argentina e i crack di Parmalat e Cirio -, sia quando divenne presidente del consiglio di sorveglianza Mediobanca, sia quando prese il potere di Generali.
Ad alimentare il sistema, le partecipazioni incrociate, che hanno creato una ragnatela di poteri che ha catturato il mondo dell’editoria, dell’assicurazione, delle banche, delle tlc, dell’edilizia, degli aeroporti, dando vita ai cosiddetti “salotti buoni”, definizione che ha voluto dare una parvenza pulita a giochi di potere sporchi, tipici del mondo delle lobby.
“Ma nelle ultime settimane questo mondo che ha gestito il potere finanziario italiano dalla Seconda guerra mondiale ha fatto il suo tempo e sotto la pressione degli investitori, Generali e Mediobanca hanno promesso di sciogliere la matassa delle partecipazioni incrociate alla base del salotto buono”.
“Non si tratta di trasformare il mondo in un posto migliore, la ragione è che i soldi sono finiti. Le cose stanno cambiando e, in quello che è un tipico stile italiano, stanno cambiando in modo brutale. C’è sangue ovunque”, ha commentato uno dei più importanti banchieri italiani senior, che ha deciso di optare per l’anonimato.
Le conseguenze disastrose delle partecipazioni incrociate hanno iniziato, ricorda il quotidiano britannico, a farsi sentire nel 2011, quando “la crisi ha portato l’Italia sull’orl della bancarotta e i titoli bancari hanno perso fino a -90% del loro valore”.
A quel punto, “il club ha compreso che il suo tempo era scaduto. Le partecipazioni incrociate erano diventate infatti le vene attraverso cui il contagio avrebbe potuto diffondersi da un business colpito a un altro. Le dinastie industriali come gli Agnelli non le vogliono più. Nè possono permetterselo”.
“Questa è la vera fine di ‘Io ti nomino perchè sei un mio amico e tu acquisti le mie azioni perchè ti ho votato per il cda – commenta all’Ft Davide Serra, amministratore delegato dell’ hedge fund Algebris. “Questa mentalità di patti tra gli azionisti è un cancro che si è diffuso dalla politica agli affari, alla burocrazia e alla giustizia. Ora il business sta reagendo per prima perchè non ha più scelta”.
Ma si può parlare davvero di fine di un’era? “Questi patti – orchestrati da Enrico Cuccia (numero uno di Mediobanca) – hanno permesso a poche famiglie ricche, gli Agnelli, i Pesenti, i Pirelli, i Ligresti e i Benetton, di controllare la finanza, l’industria e i media italiani attraverso partecipazioni relativamente piccole”, con “Mediobanca che si è trasformata nella Goldman Sachs italiana”.
Mediobanca è stata il maggiore azionista della compagnia di assicurazione numero uno in Italia, Generali, del principale gruppo di telecomunicazioni, Telecom Italia, di Rcs MediaGroup, proprietario di uno dei principali quotidiani italiani, il Corriere della Sera” e anche di Pirelli, tra i gruppi industriali più importanti.
Ecco la descrizione di Alan Friedman, autore di un libro sul potere di Gianni Agnelli, patriarca del gruppo Fiat. Entro gli anni ottanta, ha scritto, il capitalismo italiano diventò “un piccolo gruppo che si autocompiaceva e si auto alimentava. Diventò monopolitistico, oligopolistico e sicuramente un fantoccio che impediva qualsiasi competitività nel listino azionario milanese”.