Questa asset class garantisce una diversificazione di portafoglio ma è necessario prestare attenzione ad alcune peculiarità
È uno dei temi caldi nel settore della consulenza finanziaria, e lo è già da qualche tempo. Investire nei private markets, che significa in termini semplici investire nel “non quotato”, inteso come azioni (equity) e debito (bond e crediti diretti) di imprese private, nonché in infrastrutture e real estate.
Ma quali sono i pro e i contro? Per capirlo occorre innanzitutto fare dei distinguo: i veicoli per investire nei private markets sono infatti differenti, e caratterizzati da diversi profili di rischio-rendimento. Si va dai fondi di venture capital, focalizzati sull’investimento in start-up (tanto rendimento potenziale ma anche tanto rischio), ai fondi di private equity che prediligono l’acquisto di partecipazioni in società mature e con track record certo (meno rischio ma buon rendimento potenziale), agli strumenti di private debt/credit che si specializzano nel credito diretto alle imprese non quotate. Senza contare che oggi esistono anche piattaforme di equity e lending crowdfunding dove l’investitore privato può scegliere direttamente a chi prestare i propri soldi (lending) o di quali start up diventare azionista (a suo rischio e pericolo). E poi ci sono i PIR e i PIR alternativi che in parte fanno quanto sopra. Più di nicchia soluzioni quali attività di business angels, club deals per clienti Hnwi, Spac quotate in Borsa.
I vantaggi dei private markets.
Conviene sfruttare questi veicoli di investimento? Se ragioniamo in una logica di asset allocation e di diversificazione di portafoglio la risposta è assolutamente sì. Non vi è nessun dubbio, infatti, che qui si va ad investire in aziende che, in quanto non quotate, per forza di cose non sono presenti nei tradizionali strumenti (fondi comuni ed ETF). Tutto ciò a patto che l’investimento nei private markets rappresenti solo una parte contenuta del portafoglio. In termini di rendimento-rischio le prospettive sembrano buone; le società non quotate sono spesso ben redditizie e ben capitalizzate, ma le capacità di scelta dei gestori diventano decisive.
Rispetto ai tradizionali fondi comuni, dove tutto sommato si può seguire, più o meno, un benchmark, qui ogni gestore deve prendere decisioni singole e irripetibili, e non può “copiare” i colleghi: se in un’azienda non quotata un fondo di private equity acquista il 50% delle azioni è difficile che un altro fondo possa entrare in quella stessa azienda.
Soglie elevate di ingresso.
Veniamo ai contro. I private markets sono strumenti illiquidi, quindi occorre la pazienza di aspettare che gli investimenti producano i loro frutti. E sotto questo aspetto si consideri che gli italiani, grandi investitori in immobili, sono già in buona parte illiquidi. Vi è meno trasparenza, per non dire opacità: i valori ed i rendimenti indicati sono frutto di stime che non è detto si realizzeranno pienamente alla fine del periodo di investimento. E anche i rischi che si corrono, specie lato credito, non sempre sono evidenti. Infine, sebbene sia preferibile anche qui diversificare su più prodotti, ciò potrebbe essere reso difficoltoso dalle soglie di ingresso previste.
L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di luglio / agosto del mensile Wall Street Italia. Per abbonarti clicca qui