Il concetto di “etnico” nella moda contemporanea è il riflesso di un
ampliamento delle frontiere e dei confini di una societĂ sempre piĂą
influenzata dai viaggi e dai mass media.
La moda si sviluppa dove c’è libertà e voglia di distinzione. Quel
destreggiarsi tra omologazione e differenziazione in cui l’individuo
occidentale piĂą o meno maldestramente si cimenta dal Medio Evo in poi.
Nelle società cosiddette “tradizionali”, infatti, non c’è la moda,
prevale il costume e ci si veste come ci si era sempre vestiti,
rispettando e confermando ruoli e rituali.
Quindi la moda etnica è apparentemente un ossimoro: mi vesto copiando
qualcuno che non si veste. Faccio moda con qualcosa che non appartiene
alla moda.
Eppure la moda etnica esiste ? Ne osserviamo le suggestioni nelle
sfilate, nei negozi e sulle riviste – e non è pura contraddizione e non
è più nemmeno semplice citazionismo, come un tempo poteva essere
l’Orientalismo. Non è neanche gusto rétro.
La moda etnica nasce come momento di incontro tra l’occidente e
l’altrove. Tra l’uguale e il diverso.
Le differenze tra uomo e donna, tra occidente e oriente, tra Europa e
Africa, tra sopra e sotto. Sulle ambiguitĂ fa perno la moda, in quelle
aree lasciate libere all’immaginazione. Dice Thierry Mugler in
un’intervista al Sunday Times Magazine “la moda è l’arte postmoderna
per
definizione, perché contribuisce a destabilizzare il sé in modo
meraviglioso”.
L’etnico è, tra i déplacement percorribili dall’uomo contemporaneo,
sempre alla ricerca di spostamenti di senso, il piĂą coinvolgente e
forse
anche il piĂą immediato. Da Kenzo, a Romeo Gigli, alle bambole Kokeshi
del catalogo Benetton.
Ma moda etnica è stato anche il giovanilismo degli anni settanta che
diviene poi stile di vita, così come i “giovani” che da semplice fascia
anagrafica si trasformano in mondo di riferimento aprendo le porte
all’informale. Ma la divisa dell’etnia dei rivoltosi contro la
moda-istituzione, jeans & co, si consoliderĂ in moda, 25 anni dopo. Per
esempio nel cosiddetto grunge. Agli anni 70 apparteneva invece, tra
l’altro, un capo che di etnico aveva solo il nome, l’eskimo.
Più tardi – quando la moda è già l’indicatore dell’immaginario sociale –
arriva il parka, mutuato realmente dalla cultura vestimentaria eskimo.
Ma con la fine dell’anti-moda – ora che la moda è un grande pervasivo
catalogo del gusto, opporvisi appare sempre più vano – inizia il periodo
della contaminazione che ci accompagnerà , si presume, per un bel po’ di
tempo e che spazia dalla moda, alla cucina, alla religione.
Non a caso il movimento si chiama fusion: come è il caso in cucina del
sushi all’italiana – involtini di riso alla giapponese con sapori
mediterranei come pesto e pomodoro – o in campo religioso il viaggio
del
Dalai Lama in Italia con il tibetanesimo occidentale.
Quindi, come l’antropologo nel metrò, Marc Augé, siamo tutti sarti che
ficcano il naso nel guardaroba degli altri.
Ma se un luogo comune vuole le culture “altre” colonizzate anche
attraverso l’abbigliamento che abbandonerebbero il modo di vestire
tradizionale per adottare il nostro modo in modo passivo, in una sorta
di deprimente macdonaldizzazione del mondo, noi sappiamo che non è né
così semplice, né così vero.
Vi sono molti esempi di come anche “loro”, le culture “altre” si
servano
dei capi del nostro guardaroba come di un catalogo del gusto
esattamente
come noi, per esprimere i loro nuovi percorsi, da una parte, e di
come,
dall’altra, il vestire “fusion” possa essere anche un modo di risolvere
i conflitti che la “modernità ” provoca.
Sarti africani che propongono abiti occidentali a Bamako e li
“tradizionalizzano”; gli indiani Asheninka del Perù che a seconda delle
occasioni si travestono da bianchi o da indiani quando vanno in cittĂ ,
ben attenti che quando si vestono da bianchi appaia chiaramente il
fatto
che non lo sono. O i Kalabari del delta del Niger che hanno “rubato” da
secoli agli inglesi ombrello e bombetta.
Ma il caso più interessante è quello indiano, fonte di ispirazione di
molti stilisti. In India è presente una industria tessile e una
attivitĂ
sartoriale molto articolate e di grande tradizione. In India, giĂ da
molto tempo, il vestire “fusion” è praticato e foriero di significati
complessi, oggetto di studi antropologici e sociologici. Non solo
perché
la moda e l’ attività di sartoria hanno contribuito all’emancipazione
femminile, ma anche perché il vestire fusion rappresenta per i giovani
un modo di vivere sia la realtĂ occidentale, che quella fortisima della
loro tradizione. E il sari e il shalwar (il tre pezzi pantaloni, abito
e
scialle), gli abiti della tradizione indiana, hanno subito molte
variazioni.
Grande successo dagli anni 80 in avanti hanno avuto nuove
collezioni fusion da portare sia all’est che all’ovest e che non
richiedono una scelta tra i due mondi.
Perché la cultura fusion non dovrebbe essere intesa come un compromesso
tra i suoi due elementi costitutivi, bensì uno statement del tutto
nuovo. “E sta qui il suo straordinario interesse” dice una giovane
stilista fusion indiana che ha avuto molto successo “disegnando abiti
che io porterei in quanto indiana che vive in una società occidentale”.
Contaminazione anche come risoluzione di conflitto, quindi. Del resto
sappiamo come l’assenza di contaminazione significhi talvolta l’esatto
opposto. Non contaminarsi per esprimere una difficoltĂ che sta altrove.
La dimostrazione a Torino per l’uso del chador a scuola di queste
ultime settimane ne è un buon esempio.
Da quando la moda non è più il total look degli anni 80 imposto dagli
stilisti, bensì la realizzazione di stili personali sulla base di ciò
che offre il mercato a molti livelli diversi, la contaminazione e lo
zapping tra gli stili è diventata la nuova regola in assenza di regole.
E per il prossimo futuro? Propongo un nuovo guardaroba fusion che, in
aggiunta alla contaminazione sul prodotto, valorizzi l’occasione d’uso,
scegliendo, nel mondo, il miglior prodotto per assolvere ad una
funzione
specifica:
– un parka eskimo per andare in moto anche d’inverno sotto la pioggia
– un kimono giapponese per le sere tranquille e intime da trascorerre
in
casa
– un abito dasera italiano di Biki per una prima alla Scala di Milano
– un sari indiano di seta preziosa per le notti primaverili
– zoccoli olandesi per il giardinaggio
– un bubu africano o una djeballah marocchina per un cocktail estivo
all’aperto
ecc. ecc.
Simona Segre, Sociologia della moda, IULM, Milano