Prima di partire per Bruxelles, la signora Merkel ha ricevuto il voto di 503 deputati del Bundestag (i contrari sono stati appena 89), che l’autorizzavano a negoziare un accordo. Prima di partire da Roma, Silvio Berlusconi non ha avuto neanche la firma del suo ministro del Tesoro in calce alla lettera di intenti che ha portato a Bruxelles. Su quelle sedici pagine, ultima spiaggia del governo, Giulio Tremonti non ha voluto lasciare impronte digitali, comportandosi come uno che «non l’ha neanche vista».
E l’ultimo drammatico confronto con Berlusconi non sembra essere stato sul merito del testo, ma sull’invito reciproco al passo indietro. Se è ancora comprensibile che il capo dell’opposizione ripeta che ogni misura è inutile se non si manda a casa il premier, è del tutto impossibile che lo pensi un ministro del suo governo, tra l’altro deputato a sorvegliare il Tesoro, a garantire le Finanze e a far quadrare il Bilancio.
È qui certamente all’opera, pur in un’ora drammatica della storia repubblicana, quella sindrome dello scorpione che sembra aver contagiato anche i migliori esponenti della nostra classe dirigente. Lo scorpione punge e affoga la rana che lo sta portando sulla schiena anche se così affoga se stesso; semplicemente perché è scorpione, ed è nella sua natura pungere. Allo stesso modo Umberto Bossi si comporta con Mario Draghi, l’italiano che guiderà la Bce, accusandolo addirittura di voler pugnalare il governo del suo Paese.
Intanto Gianfranco Fini, terza carica dello Stato, si vendica su Bossi prendendosela in un talk show con la moglie baby pensionata. Mentre il Parlamento tedesco votava, in quello italiano ci si prendeva a pugni tra leghisti e futuristi: deputati che si saltano alla gola, come ha scritto nella sua impietosa cronaca online il sito del Financial Times.
La sensazione è che i politici italiani continuino a scherzare col fuoco. Non vedono che, a differenza degli anni 90, oggi la punizione dei nostri errori non sarebbe restare fuori dall’euro, ma far crollare l’euro. Il futuro dell’Europa ormai si scrive a Roma, non ad Atene. Per questo indulgenze non se ne vendono più. In tedesco debito si dice «schulden»: deriva da «schuld», parola che tra i suoi significati ha anche quello di «colpa».
Ieri abbiamo dato la nostra parola ai leader europei, che l’hanno accettata. Ma ora dobbiamo mantenerla, promessa per promessa. E nel caso Tremonti c’è qualcosa di poco rassicurante per i veri giudici degli «intenti» italiani, cioè coloro che ci prestano i soldi per pagare stipendi e pensioni: la sensazione che nella squadra di governo l’obiettivo non sia più comune. La lettera all’Europa è infatti anche un atto di contrizione: se annuncia una «commissione» che studi un piano per abbattere il debito pubblico, è abbastanza chiaro che quel lavoro non lo fa più il ministro; se si impegna a riforme respinte fino all’altro giorno come «mercatiste», vuol dire che non è più tempo di «colbertisti».
Tremonti ha detto ieri che «ci vorrebbe un po’ più di fiducia in noi, tra di noi e per noi». Ma se non c’è nel governo, e se ce n’è così poca in Parlamento dove il governo continua a scivolare, è difficile credere che gli impegnativi «intenti» di ieri possano davvero trasformarsi nel più massiccio piano di riforme di mercato che l’Italia abbia mai messo sulla carta.
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Il retroscena. Ma il presidente del Consiglio avverte: “Solo Bossi ormai difende Giulio”.
Tremonti prende le distanze “Quella lettera non è mia”. E i ribelli Pdl meditano il blitz. Sono stati Romani, Brunetta e Sacconi gli ispiratori del testo portato al Consiglio europeo.
di FRANCESCO BEI
ROMA — Giulio Tremonti assiste con distacco ai tentativi del premier di ri-accreditarsi in Europa. Seduto sull’argine del fiume, osserva e non si muove. «Quella lettera non è mia, facciano come vogliono», raccontano abbia detto dopo aver letto il documento elaborato a palazzo Grazioli. Troppo generico e insieme troppo ambizioso per un governo che non ha più il fiato per andare avanti. Del resto la debolezza della maggioranza, ieri andata sotto sia alla Camera che al Senato, fa apparire gli impegni presi dal premier con l’Unione europea ancora più irraggiungibili.
Senza contare che le voci su un patto tra Bossi e Berlusconi per andare al voto in primavera, nonostante le smentite, hanno agitato decine di peones del Pdl, certi di non essere più rieletti. Alimentando nuovamente l’attesa per un governo tecnico che conduca in porto la legislatura. Così, se è vero che il portavoce del ministro smentisce come «ricostruzioni fantasiose» quelle che descrivono un Tremonti scettico sulla lettera e isolato, nelle conversazioni private il titolare dell’Economia manifesta tutto il suo pessimismo.
Soprattutto per il timore di un micidiale attacco speculativo sull’Italia, per niente scongiurato dalla «letterina» del premier.
La sfiducia nei confronti di Berlusconi è ampiamente ricambiata dal Cavaliere. II quale, dopo il buon esito della trasferta a Bruxelles, si sente per la prima volta affrancato dalla tutela subita in tutti questi mesi dal ministro dell’Economia. «Tremonti — sostiene in privato il premier — non è più il garante dei mercati, ormai è con me che dialogano le istituzioni europee». La partita finale si è giocata proprio sui contenuti della lettera d’intenti presentata in Europa, un vero documento programmatico che si sovrappone e sostituisce quelli elaborati dal ministro dell’Economia.
Ma la novità non è soltanto nel «ridimensionamento» del ruolo di Tremonti che Berlusconi è convinto di aver ottenuto. Il vero cambiamento, avvertono i ministri del Pdl che hanno seguito da vicino la trattativa, sta nell’atteggiamento della Lega nei confronti di quello che finora è sempre stato considerato come l’alleato più prezioso. Frutto di questo convincimento è la confidenza fatta da Berlusconi, prima di partire per Bruxelles, a uno dei suoi: «Tremonti ha stancato anche la Lega, ormail’unico che lo difende è rimasto Bossi. Ma con sempre minore convinzione». Un ragionamento che porta a una conclusione drastica: «Se non fosse per Bossi l’avrei già sostituito».
Gli indizi di un cordone sanitario alzato intorno a Tremonti comunque ci sono tutti. La “lettera” è infatti il frutto del lavoro principalmente di tre ministri: Paolo Romani, Renato Brunetta e Maurizio Sacconi. I primi due certamente non amici del titolare dell’Economia. Sta di fatto che a Tremonti il documento da spedire a Bruxelles è stato fatto leggere solo martedì sera, a cose fatte.
A indispettirlo maggiormente pare che sia stato il capitolo sulle privatizzazioni di Stato, che Tremonti teme possa risolversi in una predazione dei pochi gioielli di famiglia rimasti: Eni e Finmeccanica su tutti. «Si rischia un nuovo “Britannia” — ragiona un uomo del Pdl che condivide le preoccupazioni del ministro dell’Economia — e anche questa volta, come fu per le privatizzazioni del ’92, il protagonista occulto è sempre lo stesso: Mario Draghi».
E tuttavia, al di là dello scontro con Tremonti, nessuno nel governo crede davvero che la legislatura possa arrivare alla sua conclusione naturale. Lo stesso Angelino Alfano, in una riunione tenuta ieri a via dell’Umiltà con ministri e dirigenti del Pdl, ha detto “apertis verbis” che lo scenario più probabile è quello di elezioni nel 2012, invitando tutti a «serrare i ranghi». Ma è proprio il timore delle urne a spingere i frondisti del centro destra a rialzare la testa. Ieri pomeriggio si sono riuniti gli scajoliani, al Senato Beppe Pisanu e altri dieci sono pronti a muoversi. E proprio sul decreto sviluppo, che arriverà a palazzo Madama, i ribelli potrebbero compiere il loro blitz e arrivare alla rottura definitiva. Ma il tempo sta scadendo, la finestra per formare un governo tecnico sta per chiudersi. «Restano pochissimi giorni», li ha awertiti ieri Casini, poi le elezioni saranno ineludibili».
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