ROMA (WSI) – Il parziale è di due a uno. Per ogni due miliardi in acquisizioni fatte da aziende straniere in Italia, un miliardo viene investito dalle nostre per espandersi oltreconfine.
Un risultato forse meno pesante di quanto si potesse immaginare, ma che non lascia spazio a rassicurazioni. Si tratta di operazioni in buona parte medio-piccole, fatte da imprese già presenti sui mercati esteri. Questo ha consentito loro di continuare vendere anche quando il mercato italiano ha cominciato ad arrancare. E a impostare strategie di crescita, comprando marchi e stabilimenti altrove.
I NUMERI – Dal 2009 ad oggi le aziende italiane hanno concluso 241 operazioni per un controvalore pari a 23,1 miliardi. Nello stesso periodo, società straniere hanno acquistato 363 aziende italiane per 47 miliardi.
Secondo lo studio realizzato dalla società di revisione Kpmg per il Corriere della Sera, l’andamento degli investimenti italiani all’estero negli ultimi quattro anni è stato piuttosto stabile, con una media di cinque miliardi l’anno. 15 in meno rispetto a quella relativa al periodo che va dal 2000 al 2008. Se diamo ancora uno sguardo alle operazioni fatte da aziende straniere, negli ultimi 13 anni in media hanno speso in Italia 15,3 miliardi l’anno. Due miliardi in più se si considera il periodo pre crisi ma due in meno rispetto a quanto hanno fatto le aziende italiane. Erano addirittura in vantaggio. Ma da quel periodo il quadro è completamente cambiato.
IL RAPPORTO – Nel 2001 il peso dell’Italia nel Mergers and acquisitions, indice che monitora le operazioni di finanza straordinaria, come lo sono le acquisizioni, era del 3 per cento. Oggi è calato all’uno. “Paghiamo la crisi, è vero, ma il tessuto industriale italiano è fatto in gran parte di piccole aziende che non hanno saputo fare il salto di qualità, quello che altrove hanno fatto” commenta Maurizio Dallocchio, ordinario di Finanza aziendale dell’Università Bocconi.
“Le nostre imprese sono state coccolate con l’idea che piccolo è bello. Ma nel mercato globale questa equazione non funziona. Senza un cambio di mentalità da parte dei nostri imprenditori, e senza una legislazione sul lavoro che non inibisca le aziende a superare la soglia dei 15 dipendenti, sarà un trend difficile da invertire”.
LE ACQUISIZIONI – Eppure qualcosa si muove. Big come Eni ad esempio, che negli ultimi cinque anni hanno portato a termine 10 acquisizioni, dal Regno Unito al Canada, per un totale di oltre otto miliardi. Ma anche Campari, molto attiva in America, che ne ha concluse nove per 936 milioni. Luxottica e Recordati sette, investendo 276 milioni e 358 milioni. E ancora Amplifon, Gitech, Autogrill. Aziende grandi, con una struttura finanziaria forte e un mercato di riferimento prevalentemente internazionale. Il 57 per cento delle operazioni è stata fatta in Europa occidentale. Il 23 in Nord America e l’11 in Europa orientale.
IL CASO – Curiosità: nella top 30 delle acquisizioni, solo una è stata fatta in Francia da un’azienda italiana. Si tratta peraltro del ramo italiano della Lafarge, azienda di costruzioni, comprata dalla Sacci. «La maggior parte di queste operazioni però sono fatte da multinazionali tascabili», dice Giuseppe Latorre, partner Kpmg.
«Nel tempo l’andamento è mutato. Se prima avevamo tre grandi filoni, quello energetico, il finanziario e il manifatturiero che facevano grosse operazioni, oggi si tratta di operazioni più piccole fatte in larga parte da imprese di medie dimensioni. Quelle che meno soffrono la crisi del mercato domestico. Ma la partita è impari e la forza delle multinazionali straniere è nettamente superiore».
LE DIMENSIONI – Ancora, dunque, una questione di dimensioni. Si riflette anche quando si parla degli studi legali che assistono le aziende nei processi di acquisizione. Una consulenza necessaria quando si va a investire all’estero per chiarire gli aspetti normativi. «A volte si tratta di operazioni molto complesse. Ma man mano stiamo raggiungendo il grado di specializzazione anglosassone», dice Stefano Sciolla, partner della filiale italiana dello studio legale statunitense Latham&Watkins. I dati raccontano che la strada del mercato globale per le imprese italiane si è fatta in salita. Se si vuole tentare la scalata è necessario un cambio di paradigma. Una visione meno localistica e una gestione aziendale più audace. Almeno così secondo gli esperti. Qualche esempio c’è. Ma ancora insufficienti a ribaltare il parziale.
Copyright © Corriere della Sera. All rights reserved