A chiunque si sia mai avvicinato all’economia viene insegnato che il libero scambio è sinonimo di crescita e prosperità; dall’altra parte il protezionismo non consente l’utilizzo ottimale delle risorse disponibili e porta gli stati a chiudersi sempre di più nelle proprie barriere doganali, se non a farsi la guerra. Questa analisi molto influente, che si riflette nei diffusi timori in merito all’attuale fase politica globale caratterizzata dal fenomeno Trump, è stata sfidata da un articolo molto documentato comparso sul sito tedesco di analisi politico-economiche Makroskop e tradotto da Vocidallestero.it.
In questo lavoro di ricerca storica l’autore, Patrick Kaczmarczyk, recupera i risultati economici di alcune economie occidentali nel XIX e XX secolo per comprendere se sia poi così vero che il protezionismo coincide sempre con un regresso economico e ad un inferiore livello degli scambi internazionali. Perché serve andare così indietro nel tempo? Perché molti economisti e storici collegano proprio al periodo antecedente alla Prima Guerra Mondiale l’esperimento originario di economia globalizzata (e pacifica). Il risultato che pare emergere è che il volume degli scambi, più che dipendere dal grado di apertura dell’economia in termini di barriere doganali, discende dalla crescita, anche se quest’ultima si verifica in condizioni di maggiore protezionismo.
Scrive l’autore in un passaggio-chiave:
“La problematica del libero commercio, dal quale in teoria alla fine tutti dovrebbero trarre vantaggi si delineò già nel XIX secolo, quando la società si divise tra vincitori e sconfitti della globalizzazione. I primi furono principalmente i lavoratori delle città, in quanto i prezzi dei prodotti alimentari, grazie alla riduzione dei costi di trasporto, diminuirono significativamente […] I perdenti invece furono principalmente i contadini che vivevano nelle campagne, poiché i prezzi dei prodotti agricoli calarono, a causa delle importazioni a prezzi bassi, e i loro redditi si ridussero significativamente […] Come risposta alla crescente guerra dei prezzi e alla incombente depressione del 1870, i proprietari terrieri insieme a nuovi imprenditori emergenti dell’industria riuscirono a far accettare in vaste aree dell’Europa un più forte protezionismo, che è rimasto in vigore fino all’inizio della Prima guerra mondiale. L’impero austro-ungarico innalzò le tariffe doganali nel 1876, l’Italia seguì nel 1878 e la Germania si unì al trend nel 1879”.
Sarebbe stato logico aspettarsi, nel periodo successivo, una riduzione degli scambi internazionali e dell’output in tali economie, ma ciò non avvenne. “Nel periodo dal 1860 al 1879, quando il commercio era fortemente liberalizzato, sia la crescita della produzione sia l’export furono molto deboli. Invece durante la fase protezionistica immediatamente successiva il tasso di crescita della produzione aumentò di più del 100% e l’export aumentò del 35%”. Una tavola a sostegno di queste affermazioni è allegata al lavoro (in basso). “Ogni paese in seguito alla propria politica protezionistica vide una rapida crescita del reddito nazionale lordo”, meno l’Italia.
In conclusione del lungo excursus, l’autore, dichiara che il protezionismo può essere utile “se applicato nel quadro di una intelligente strategia di politica commerciale, che corrisponda ogni volta al proprio stadio di sviluppo”.
“Anche per i principali paesi industrializzati possono esserci vantaggi derivanti da misure protezionistiche”, aggiunge poi Kaczmarczyk, “soprattutto quando si tratta di difendersi da vantaggi commerciali sleali di altri paesi. Così, lentamente, si fa largo l’idea che il nocciolo del problema sia qui. In Germania non si vuole ancora ammettere che l’enorme avanzo della bilancia commerciale è stato ottenuto con metodi sleali e a carico dei paesi in disavanzo di bilancia commerciale. Perciò in Germania è ancora più facile che altrove condannare il protezionismo”.