In un articolo apparso sul Sole 24 Ore qualche giorno fa, si affronta la recente questione relativa a Facebook proponendo una prospettiva storica. Fin dagli albori della società industriale, infatti, era apparso chiaro che le aziende di successo, che crescevano sempre di più, creavano non solo prosperità per tutti ma costituivano anche una minaccia. Esse modificavano il contesto sociale e ambientale secondo le loro necessità e, grazie alle enormi disponibilità economiche, potevano influenzare addirittura il potere politico, modificando il governo della cosa pubblica a loro favore.
Il paese che più ha vissuto tali vicende è stato proprio quello dove era garantita la maggiore libertà d’impresa: gli Stati Uniti. A testimonianza di quanto antico e duro sia stato il confronto tra gli interessi privati delle grandi corporation e il bene pubblico, vi è il discorso sul Nuovo Nazionalismo del presidente Theodore Roosevelt il quale, addirittura nel 1910 (esattamente 108 anni fa!), affermava, a proposito dell’invadenza delle aziende diventate grandi in virtù delle fusioni, che
“le fusioni dell’industria sono il risultato di una necessaria legge economica che non può essere abrogata dalla legislazione politica… La via d’uscita si trova non nel tentativo di impedirle ma nel controllarle del tutto nell’interesse del benessere collettivo” .
E aggiungeva
“I cittadini degli Stati Uniti devono controllare efficacemente le potenti forze commerciali di cui hanno permesso l’esistenza… È necessario che siano adottate leggi per vietare l’uso di fondi aziendali a scopi politici, direttamente o indirettamente… [evitare] la corruzione dei nostri affari politici “.
Cambiate “fusioni” con “industrie della rete” e“uso di fondi aziendali” con “uso dei dati”, e le stesse affermazioni le potrebbe fare un qualsiasi politico assennato di oggi. Da allora il governo federale USA è cresciuto predisponendo negli anni numerose agenzie il cui scopo era proprio quello di tutelare “l’interesse del benessere collettivo”.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, solo un ulteriore salto di qualità. Proprio per affrontare questo salto di qualità, è necessario nel caso della rete un approccio totalmente nuovo, sia per il regolatore ma, soprattutto, per consentire di far emergere una nuova propositività a un attore di controllo, che è anche di supporto: gli stakeholder, ovvero tutti noi.
L’azienda è un attore sociale a tutti gli effetti. La sua interazione con “l’ambiente”, costituito dagli altri attori sociali (istituzioni, sindacati, media, cultura, ecc.), contribuisce a modificare in maniera importante la società nel suo complesso. Non è un caso che si parli di “società industriale”, per indicare quella del secolo scorso, o di “società in rete” per quella attuale, entrambi caratterizzate dal forte impulso (nel bene e nel male) proprie delle aziende. La differenza tra l’azienda della società industriale e quella della rete è che la prima era facilmente “leggibile”.
Il suo scopo era chiaro e palese a tutti perché mirava a realizzare un “modello di società” condiviso, universalmente noto e al quale tutti tendevano. Chi costruiva automobile offriva una soluzione alla mobilità personale. Chi faceva elettrodomestici offriva, in maniera oltremodo tangibile, opportunità alla donna di liberazione dalle faccende domestiche, consentendole di emanciparsi. Chi si occupava di banca rendeva disponibile, in modo affidabile, la circolazione dei capitali che serviva a tutti gli altri. E così via. Il ruolo del regolatore in questo caso era relativamente facile.
Oggi il “Sense of purpose” di molte aziende è o obsoleto, è il caso di quelle che continuano ad occuparsi dei (sempre meno) indispensabili prodotti e servizi del secolo scorso ma in un contesto totalmente cambiato, o sconosciuto (anche a loro stesse), come nel caso delle aziende della rete. Facebook, e altri colossi analoghi, sono doppiamente pericolosi proprio per questo motivo: o non sanno i rischi che fanno correre o lo sanno e ne approfittano per motivi di business (o un mix delle due). Il primo passo allora, coerentemente al “salto di qualità” di queste imprese, è un analogo salto di qualità del rapporto di queste con il loro “ambiente”.
Esse devono obbligatoriamente interrogarsi sul loro “Sense of purpose”, banalmente che ci stanno a fare al mondo (perché ci stiamo solo ora accorgendo che non è così scontato) a partire dalla descrizione dettagliata, e periodicamente aggiornata, del mestiere che vogliono svolgere (la descrizione del business). Tale esercizio deve poi essere comunicato, nel dettaglio dei contenuti ma anche del come ci si è arrivati, per essere fruibile a tutti e non solo alla comunità finanziaria o alle comunità “verdi e sostenibili”. Questo non solo sarebbe la base per il regolatore nella sua attività preventiva e repressiva, ma consentirebbe un controllo, ma anche un consapevole sostegno, sociale oggi reso impossibile dalla opacità di queste aziende.
È inutile e patetico infatti precipitarsi a chiedere a Mark Zuckerberg, e a quelli come lui, cosa diavolo ha combinato quando la frittata è stata fatta, dovrebbe invece rispondere “in solido”, e preventivamente in automatico, sul perché non si è comportato come aveva detto e scritto almeno ogni anno in un documento pubblico.
Obbligare le imprese a impegnarsi in una tale attività potrà sembrare banale o addirittura impossibile. Ma non era altrettanto impossibile pensare che con dei banali like o mettendo qualche innocente commento in rete ci avrebbero condizionato la vita fino a farci eleggere, ad esempio, un presidente invece che un altro?
Il mondo è cambiato per davvero e ormai, se davvero vogliamo cambiare di conseguenza qualcosa, è ora, come affermava María de Jesús Patricio Martínez detta Marichuy candidata indigena alle presidenziali in Messico, di “parlare dell’impossibile, perché del possibile si è già detto abbastanza”.