Due importanti capitani d’industria italiani si sono espressi sulla sorte dell’Alitalia. Cesare Romiti ha disegnato uno scenario imperial-statalistico in perfetto stile sovietico. Lo stato rinazionalizzi la compagnia aerea, pagando i debiti a piè di lista e ci metta tutti i soldi necessari per farne un competitore a livello mondiale. Se l’Europa protesta, in nome dell’unica missione che ha esercitato decentemente, quella della garanzia della concorrenza, anche l’Europa può andare a farsi benedire.
Carlo De Benedetti, invece, all’imperialismo modello Gosplan preferisce l’autarchia italiana anni Trenta. Si faccia una compagnia nazionale, anzi, come la chiama lui una “infrastruttura”, che gestisca il trasporto aereo degli italiani e per gli italiani (compresi, per far contento Mirko Tremaglia, alcuni di quelli residenti all’estero). Anche questa, naturalmente, tutta pubblica. De Benedetti si dice “contrario all’intervento dello stato nell’economia”, ma ribattezzando infrastruttura una compagnia aerea la mette fuori dall’economia di mercato, e così si salva la coscienza.
Il punto di partenza comune ai due ragionamenti è che in Italia non c’è alcun privato disposto a investire nel trasporto aereo. Come in realtà nessuno ha mai investito nel grande mercato dei servizi avanzati, se non per concorrere alle privatizzazioni di banche, telecomunicazioni ed energia, che erano piuttosto floride anche in regime pubblico.
Romiti e De Benedetti sono perfetti rappresentanti della “grande” imprenditoria italiana, cresciuta all’ombra dello Stato, assetata di sussidi e riluttante a ogni vera innovazione.
In Italia i capitalisti non hanno creato università, centri di ricerca, ospedali, come nel resto del mondo. Andava bene che facesse tutto lo Stato. Nell’ambito culturale si sono solo interessati di controllare, non come editori puri ma come imprenditori industriali, la grande stampa, con l’idea di influire in questo modo sulla politica e quindi sullo Stato.
Ora, di fronte all’accresciuta concorrenza internazionale, piagnucolano sul “declino industriale”, come se fosse colpa di altri e lamentano, magari insieme alla Cgil, l’assenza di una “politica industriale”, cioè di sussidi pubblici alle loro imprese. In casa loro hanno licenziato dipendenti (che continuano a calare infatti solo nelle grandi imprese) e abbandonato settori decisivi come l’informatica. Ma continuano a dare lezioni, senza arrossire. Governo e opposizione si comportano come l’intendenza: seguono.
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