Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino, un evento destinato ad aprire una breccia non solo nella cortina di ferro europea, ma anche nell’organizzazione economica globale che sarebbe seguita nel decennio successivo. Con il tramonto del modello socialista, infatti, fu ritenuta inarrestabile la diffusione del modello liberale, alla base dello sviluppo delle nazioni. Un percorso che, effettivamente, si è poi verificato, contribuendo a un fortissimo sviluppo economico, ma anche a una crescente concentrazione della ricchezza.
L’importanza crescente di attirare capitali attraverso regimi fiscali particolarmente convenienti, facilitata dal processo di globalizzazione, svela se stessa in un grafico pubblicato lo scorso luglio dal Fondo monetario internazionale, nel quale è possibile osservare come le imposte sui redditi delle società siano scese in tutti i gruppi di Paesi (ad alto, medio e basso reddito) dal 1990 al 2018.
Se nel 1990 l’aliquota media sui redditi aziendali, nei Paesi Ocse europei, era del 46%, oggi tale valore è esattamente dimezzato, al 23%.
Anche in Italia il fenomeno è osservabile in interventi di recente approvazione. L’attuale aliquota al 24% è stata abbassata dal governo Renzi nel 2017, dal precedente 27,5%. Le tasse pagate in Italia dalle imprese sono complessivamente elevate, è vero, ma quello che è importante sottolineare in questa sede è che anche l’Italia ha seguito perfettamente il trend di riduzione dell’imposta sui redditi delle società, in linea con il resto d’Europa. (grafico in basso)
Un esempio eclatante è quello dell’Irlanda, che ha fondato gran parte del suo sviluppo proprio ponendosi come base privilegiata di grosse multinazionali come la Apple. Secondo i dati raccolti da Tradingeconomics la corporate tax irlandese era al 50% fino al termine degli anni Ottanta per poi crollare, fra anni Novanta e Duemila, all’attuale 12,5%.
Nel 2017 anche negli Stati Uniti di Donald Trump è stata introdotta una imposta sui redditi delle società decisamente più favorevole, portandola dal 35% al 21%. Si tratta forse della misura che più ha influenzato i mercati nei primi due anni di presidenza Trump, in quanto ha prodotto una “botta” di utili aggiuntivi a tutto vantaggio degli azionisti delle società americane.
Se le imprese, a livello globale, pagano meno tasse sui redditi, da un lato se ne incentiva la crescita, dall’altro si viene a creare un ammanco di gettito che viene coperto da altre imposte (ad esempio redditi e consumi delle famiglie) o viene compensato tagliando servizi e spesa pubblica. Non solo: se viene a verificarsi una corsa al ribasso fra i vari Paesi per trattenere o attirare nuove imprese sul territorio a farne le spese saranno, presto o tardi, i Paesi i cui sistemi di welfare non consentono di tagliare le imposte in misura troppo aggressiva.
Anche per questo la Commissione europea aveva avviato un progetto di Common corporatate tax base, una sorta di aliquota unica sui redditi delle società che limiterebbe perlomeno a livello comunitario di fare concorrenza al ribasso su quest’imposta. Dal 2018, anno in cui si rintracciano le ultime novità sulla proposta, a oggi poco di concreto è stato raggiunto.
L’analisi del Fmi mostra, ad esempio, che i paesi non-Ocse perdono circa 200 miliardi di dollari di entrate all’anno, pari a circa l’1,3% del Pil, a causa delle società che spostano i profitti in località a bassa tassazione. “Abbiamo chiaramente bisogno di un ripensamento fondamentale della tassazione internazionale” scrive il Fondo monetario, “e gli interessi e le circostanze speciali dei paesi in via di sviluppo richiedono un’attenzione particolare”.
“Ciò significa che i paesi devono lavorare insieme”, afferma il Fmi, “fare progressi richiede una cooperazione tra tutti e deve essere orientato verso un approccio duraturo, efficiente ed equo”. Se non ci si è (ancora) riusciti nell’Unione Europea, ove si suppone una maggior convergenza di valori, è difficile che a questo si arriverà a livello più globale.