Dagli ultimi dati e previsioni macroeconomiche sembra che dopo tutto le imprese italiane non hanno bisogno di un ritorno alla lira per tornare competitive. Lo scrive il giornalista Ferdinando Giugliano in un editoriale uscito su Bloomberg in cui si pone l’accento sulla ripresa della terza economia dell’area euro. Questo miglioramento generale, con le stime sul Pil che sono state riviste al rialzo all’1,5% per il 2017 dall’1,1% precedentemente stimato, ha favorito anche la creazione di posti di lavoro.
Il tasso di disoccupazione, specie quello giovanile, è ancora su livelli non ideali e superiori alla media europeo, ma i miglioramenti visti di recente stanno portando a un calo dell’euroscetticismo pur sempre molto diffuso in Italia, un sentimento secondo cui la moneta unica è la ragione di tutti i mali del settore dell’export italiano, uno dei grandi punti di forza insieme al turismo dell’industria italiana. Anche partiti anti euro come MoVimento 5 Stelle e Lega Nord hanno moderato i toni negli ultimi mesi.
È di oggi la notizia secondo la quale grazie al successo del Made in Italy sempre più aziende italiane hanno potuto quotarsi in Borsa con il 2017 che per Piazza Affari sarà un anno record per il numero di Ipo registrate e con tante altre imprese, tra cui quelle di Eataly, Valentino Fashion Group e Furla, che hanno intenzione di fare il loro ingresso alla Borsa italiana l’anno prossimo
È uno sviluppo importante anche per l’intera area euro. Il governo si aspetta che l’economia registri un’espansione dell’attività sostenuta (vicina all’1,5% su base annuale) anche nei prossimi due anni, un tasso più elevato di quanto previsto in precedenza. Il principale fattore dietro a tale crescita del Pil è l’export.
Il ministero delle Finanze prevede che nel 2017 le esportazioni aumentino del 4,8% rispetto a un anno fa. In aprile la percentuale stimata era del 3,7%. Anche le importazioni stanno salendo più del previsto, le vendite di prodotti del Made in Italy stanno portando molto denaro dall’estero, aiutando anche la crescita dei consumi interni. La bilancia delle partite correnti dovrebbe gonfiarsi al 2,4% del Pil quest’anno, in controtendenza rispetto al deficit del 3% registrato nel 2011, all’apice della crisi del debito sovrano.
Il successo del Made in Italy di qualità: ma servono più investimenti
Ovviamente in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo, la ripresa dell’Italia dipende fortemente da quello che sta scucendo intorno alla terza economia dell’Eurozona. Il commercio mondiale ha ripreso a correre e questo sta aiutando enormemente il Made in Italy. Detto questo, sta succedendo qualcosa di importante da noi, scrive Bloomberg: le società italiane stanno imparando a essere competitive anche senza svalutazioni mirate e con tutti i limiti che comporta un tasso di cambio fisso.
La Banca d’Italia ha pubblicato di recente un’analisi in cui si vede bene come la quota di mercato dell’Italia è collassata nel primo decennio da quando è stato introdotto l’euro, nel 1998, ma negli ultimi tempi la situazione è andata stabilizzandosi. E se non fosse stato per la crisi dei debiti sovrani degli ultimi anni, la situazione sarebbe tornata alla normalità ancora prima.
Tra la nascita dell’euro e l’ultima grande crisi finanziaria, i gruppi italiani esportatori sono stati stretti nella duplice morsa rappresentata dalla concorrenza dei mercati emergenti con manodopera a basso costo, come la Cina, e dai prezzi interni in crescita più di altri Stati membri dell’area euro, a causa dei nuovi tassi di cambio. Le imprese PMI, fiore all’occhiello dell’industria italiana, hanno impiegato molto tempo ad adattarsi al nuovo mondo.
Non sono riuscite a espandersi nei mercati in Via di Sviluppo come hanno potuto fare multinazionali e grandi aziende più attrezzate e non sono riuscite a concentrarsi sulla vendita di prodotti di alta qualità, un’operazione che avrebbe consentito loro di competere non più sui prezzi bensì sulla qualità dei prodotti. Il miglioramento della competitività è stato possibile grazie al fatto che l’economia si sta specializzando in singoli settori come quello farmaceutico che al contrario del tessile non devono vedersela con la concorrenza delle imprese cinesi.
C’è un sempre maggiore focus sul cibo e sulle bevande, dove l’Italia può distinguersi per brand e reputazione, a prescindere dal costo finale dei prodotti offerti. Infine, i salari in patria e i prezzi stanno salendo in un certo modo più lentamente rispetto ad altri Stati membri dell’area euro, offrendo un insperato vantaggio competitivo alle imprese del Made in Italy. Bloomberg cita l’esempio di Diadora, società di scarpe che negli Anni 70 e 80 era un leader mondiale nella produzione di scarpe da tennis.
Imprese sfidano euro forte: l’esempio di Diadora
Diadora è stata sponsor del pluricampione del Roland Garros e cinque volte campione di Wimbledon, il torneo del Grande Slam più prestigioso al mondo, il tennista Bjorn Borg. Marco Bettiol, un professore di economia all’Università di Padova ha spiegato bene il declino del gruppo negli Anni 2000, sotto i colpi della concorrenza spietata di rivali cinesi nel settore. Da allora però Diadora è in netta ripresa e nel 2009 la nuova proprietà ha rivisto la produzione, puntando più su scarpe di alta qualità. La scommessa ha pagato e i consumatori hanno premiato scarpe belle, resistenti e “Made in Italy”, nonostante il prezzo più alto di certi prodotti disponibili sul mercato.
C’è un problema però: l’attuale strategia vincente potrebbe non durare a lungo. Secondo la ricerca di Bankitalia in assenza di una ripresa della produttività più significativa, le imprese italiane non possono andare molto lontano. “La crescita della produttività negli ultimi venticinque anni è stata penosa e anche se la ripresa economica sta creando occupazione, nel complesso l’efficienza resta limitata”, dice Giugliano.
Un modo per l’Italia di essere più produttiva sarebbe quella di incentivare gli investimenti. Negli ultimi tempi gli sforzi del governo in questo senso hanno dato frutti. I vantaggi fiscali garanti dal governo alle aziende che comprano nuove attrezzature hanno funzionato anche se c’è voluto del tempo. All’inizio la risposta è stata deludente: nei primi sei mesi di quest’anno gli investimenti in macchinari e divisioni di R&D (Ricerca e Sviluppo) sono stati sugli stessi livelli registrati del 2016.
Ma le ultime ricerche, effettuate sempre dalla Banca d’Italia, dicono che il vento sta cambiando e che nel secondo trimestre più di un terzo delle imprese interpellate ha detto di voler aumentare gli investimenti rispetto a quanto fanno l’anno prima. Solo il 15% del campione ha intenzione di ridurre invece gli investimenti. Se i dati verranno confermati anche nella seconda parte del 2017, allora significa che il governo dovrebbe conservare gli sgravi fiscali per le imprese che investono, in quanto si sono rivelati più efficaci ora che la ripresa è avviata.
L’Italia non deve per forza lasciare l’area euro o chiudersi nel protezionismo per prosperare, ma le sue imprese non deve smettere di reinventarsi.