In una lettera del Presidente di Confindustria, pubblicata sul Sole 24 Ore, qualche giorno fa, Vincenzo Boccia sottolinea la bontà di “scelte ben precise di politica economica che hanno avviato quello che possiamo chiamare l’inizio di un circolo virtuoso dell’economia: più investimenti privati, più export e quindi più occupazione. Attivando così anche la domanda.”
Più avanti il ragionamento è reso più esplicito indicando “la strada da continuare a seguire anche nella capacità di raccontare in termini oggettivi quanto sta accadendo: cause, strumenti di politica economica, effetti, ovvero più investimenti, più export, più occupazione.”
Ma è davvero così?
Sul Wall Street Journal ci si interroga in questi giorni sugli effetti del taglio delle tasse voluto dall’amministrazione Trump. Lo scopo dichiarato è rilanciare e sostenere un crescita del PIL con le sue ‘conseguenze’ benefiche: maggiore occupazione, aumento inflazione, ecc.
Nell’articolo si ricorda che “George H.W. Bush, un Repubblicano, e poi Bill Clinton, un Democratico, proposero aumenti di tassazioni che divennero effettivi nel 1991 e 1993. Ciononostante l’output U.S. crebbe ad un robusto tasso annuo del 4,1% per il resto degli anni ’90. George W. Bush, un Repubblicano, tagliò le tasse nel 2001 e 2003, ma la crescita fu solo di un anemico 1.7% per il resto del decennio.”
Il prof. Slemrod, dell’università del Michigan, in un suo studio sulle politiche fiscali fin dal 1870, ha trovato tenui legami tra il tasso di crescita economica e le tasse.
Passando ad un altro argomento, lo stesso articolo ricorda che “la produttività della forza lavoro, che non è guidata solo dalle politiche di Washington ma anche da innovazioni come internet e il grado di istruzione dei lavoratori, è critica ” per la crescita economica. Ma “gli anni ’70 del secolo scorso, caratterizzato da alta inflazione e bassa produttività, produssero un 3,4% di crescita economica che fu molto migliore di quella del 2000”.
Le cose si complicano ancora se consideriamo ciò che fino a ieri era considerato quasi una legge: “…i prezzi sono definiti dall’offerta e dalla domanda. Quando vi è una forte crescita il mercato richiede più prodotti e le aziende necessitano di offrire paghe più alte per assumere più lavoratori e i prezzi salgono” ricorda ancora il Wall Street Journal da un altro articolo . Ma ci sono segnali che questa relazione si sia spezzata se “l’economia US è cresciuta ad un tasso annualizzato del 3% nel secondo trimestre ma a luglio l’inflazione al consumo è cresciuta solo del 1,7%”.
La morale è che l’unica politica che ha senso è allora quella del laissez-faire ?
A volte sì, come dimostrano alcuni casi nazionali europei, ma più in generale, sopratutto considerando la complessità della nostra società e di conseguenza dell’economia, sarebbe il caso di abbandonare modelli di intervento semplicistici ‘causali’, buoni forse per il millennio scorso. Se le classi dirigenti volessero, conoscenze in tal senso sono già disponibili e sarebbe auspicabile un loro avvicinamento ad esse.
Nell’attesa una considerazione sull’incongruenza della lettera del Presidente Boccia è doverosa. Lui stesso ricordava in un pubblico intervento che “c’è un 20% di aziende che va molto bene, un 20% molto male e un 60% nella terra di mezzo” . Le sue reiterate richieste di supporti, perché queste sono le invocazioni di riforme, sembrano essere una grido di aiuto per l’80% delle aziende che non vanno molto bene dimenticando che l’unico modo per aiutarle, e dunque per aiutare l’economia, è stimolare e supportare la loro imprenditorialità, la loro capacità di ritrovarla riprogettandosi in profondità. Come hanno fatto il 20% delle imprese che vanno molto bene, senza attendere interventi esterni, e la sua stessa azienda.