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Indipendenza Catalogna: come si è arrivati fino a questo punto

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La Catalogna ha una sua lingua, una sua cultura, un suo parlamento, una bandiera e persino un suo inno. Il catalano è parlato correntemente dai i funzionari statali ed è usato negli atti e discorsi ufficiali. Ma a muovere gli animi indipendentisti sono soprattuto ragioni di natura economica. La regione conta per il 19% del Pil spagnolo e i suoi governatori e la maggioranza della popolazione, stando ai sondaggi, pretende di poter esprimersi su una maggiore autonomia e autodeterminazione, se non per forza sulla secessione.

Il governo spagnolo e in particolare il partito conservatore al governo si è però sempre opposto e ha rifiutato la via del dialogo. Quando si è trovato in crisi ha fatto appello ai giudici, ma il problema catalano è politico prima che giuridico. Il risultato ottenuto con questo comportamento è stato quello di far crescere il numero di indipendentisti catalani. Dal 2006 si calcola che la percentuale di favorevoli all’indipendenza si sia triplicata, passando dal 14% del 2006 al 47,7% attuale. Le violenze della polizia e l’abuso dei diritti nel voto del primo ottobre scorso non hanno fatto che aggravare il conflitto.

Nel 2005 la Catalogna aveva approvato il nuovo statuto di autonomia della regione, trattato che era stata convalidata anche dal parlamento spagnolo e confermato nel referendum del 2006. Il nuovo statuto, che dava maggiori poteri soprattutto finanziari alla Catalogna, sembrava accontentare tutti, o quasi. Il Partito Popolare dell’attuale premier Mariano Rajoy, che in quel momento stava all’opposizione e non sedeva al governo, si è opposto facendo, ricorso al Tribunale Costituzionale.

I giudici hanno ritenuto incostituzionali alcuni capitoli del trattato, per esempio quello in cui si definiva la Catalogna una “nazione”, e di conseguenza hanno ridimensionato fortemente lo statuto, riportandolo di fatto a un testo quasi identico a quello del 1979, anno in cui dopo la morte di Franco venne sancito un nuovo statuto dell’autonomia catalana, che riconosceva la Catalogna come una comunità autonoma all’interno della Spagna.

Come ci si poteva aspettare in Catalogna non l’hanno presa bene. Nel 2010 più di un milione di catalani sono scesi in strada per protestare, sentendosi privati di un diritto che era stato loro dato dalle autorità e dal voto popolare. Sotto il nomed i “Som una nació, nosaltres decidim” (“Siamo una nazione, e vogliamo decidere“) una marea di persone ha partecipato al corteo, appoggiato da quasi tutti i partiti politici del Parlamento catalano.

Negli ultimi anni l’idea di una regione più autonoma si è rafforzata e tre anni fa, nel 2014, si è svolto un altro referendum sulla autodeterminazione della Catalogna, chiesto dal Parlamento catalano. La proposta era appoggiata dall’allora presidente catalano Artur Mas, ma dopo lo stop del Tribunale costituzionale – interpellato ancora una volta dal governo di Madrid – il voto si è ridotto a una consultazione informale non vincolante.

L’unica via di uscita è quella del dialogo e del negoziato. Podemos, partito di centro sinistra, chiede che vengano scelte delle persone di fiducia per mediare dalle due posizioni agli antipodi di Barcellona e Madrid. In questo modo la regione catalana non otterrà mai l’indipendenza assoluta, ma potrebbe trattare condizioni più favorevoli, che si avvicinino di più a quanto ottenuto dal punto di vista finanziario nel 2005-2006, piuttosto che allo statuto del 1979.

L’Europa, che ha giudicato la crisi catalana una questione interna alla Spagna, sta a guardare con ansia i prossimi sviluppi. Mentre il governo della Catalogna si appresta a proclamare la sua indipendenza, sfidando le autorità centrali di quella che è la quarta potenza economica dell’area euro, appare sempre più evidente che dalla situazione di stallo attuale non si esce con la violenza o con decisioni unilaterali, bensì con l’apertura al dialogo.