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INDUSTRIA: UNA PROVINCIA SU DUE E’ IN CRISI

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(WSI) – Forte crisi per l’industria italiana. E’ quanto si legge nella relazione semestrale dell’Osservatorio per il monitoraggio delle attività produttive del ministero delle Attività Produttive.

I DATI. Delle 103 province italiane 50 si possono definire affette da «fenomeni rilevanti di crisi o trasformazione manifatturiera» di alcuni settori produttivi. In 31 province la crisi si può definire di media intensità e solo in 22 l’intensità della crisi si può definire bassa. Ad aggravare il quadro sta anche il fatto che le 50 in più grave difficoltà rappresentano il core dell’industria italiana, che rappresenta il il 47,4% del pil manifatturiero totale, il 50,3% dell’occupazione e il 51,4% delle esportazioni.

Si tratta di «valori superiori al peso complessivo dell’economia delle 50 province sul totale dell’economia italiana». Il rapporto fornisce cifre contraddittorie per quanto riguarda le aziende che hanno fatto ricorso alla cassazione straordinaria dei lavoratori. Pur essendo diminuito il loro numero tra il 2003 e il 2004 (il numero dei lavoratori interessati è passato dai 68.000 del 2003 ai 48.000 del 2004), aumenta quello dell aziende che sono costrette alla cassa integrazione per motivi gravi.

Tra il 2000 e il 2005 le aziende italiane in amministrazione straordinaria sono state 40 e i lavoratori coinvolti sono stati in totale 27.142. Il primato non certo edificante spetta alla Lombardia che ne annovera ben 13. Il settore più colpito è invece quello metalmeccanico.

CONCLUSIONI. La crisi dell’industria ha tre cause fondamentali: in primo luogo la specializzazione produttiva verso i settori a più basso valore aggiunto, in cui la concorrenza, soprattutto quella cinese, è più forte. In secondo luogo la riduzione del peso della grande impresa. In ultimo, quello che forse è il male più grave della nostra economia, lo scarso sviluppo dei settori industriali dell’alta tecnologia.

«La quota dei beni ad alto contenuto tecnologico sul totale delle esportazioni è rimasto nel corso degli anni Novanta sostanzialmente invariata (10,5%), mentre negli altri Paesi dell’Unione europea – si legge nella relazione- è passata dal 15% ad oltre il 20%, e negli Usa dal 33% al 38%».

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