Il nemico principale dell’attuale scenario macroeconomico, l’inflazione, preoccupa l’84% degli italiani, secondo una rilevazione condotta da Ipsos per Federdistribuzione lo scorso marzo, e frena alcuni acquisti nel 46% dei casi per ridotto potere d’acquisto. Ma cosa significa davvero inflazione e il suo effetto erosivo del potere d’acquisto di cui tutti parlano?
La definizione di inflazione, cioè l’aumento generalizzato e prolungato dei prezzi, contiene due parole chiave. La parola “generalizzato”, spesso data per scontata ma utile a ricordare che inflazione non è sinonimo di carrello della spesa più caro, ma riguarda tutte le spese dei consumatori, dai biglietti dei voli aerei agli affitti, fino alle rette delle scuole dei figli. Ed è una media di tutte queste voci, quindi alcuni beni e servizi possono toccare punte di rincaro più alte ma, nel calcolo totale dell’indice, saranno compensate da beni e servizi rincarati molto minori rispetto a questa media.
E il termine “prolungato”, che indica come non sia un fenomeno transitorio ma una vera e propria patologia del sistema economico, da curare con appositi interventi di politica monetaria, soprattutto quando si presenta in misura elevata. Se si volesse azzardare un paragone con una patologia del corpo umano, si potrebbe considerare l’inflazione come una sorta di febbre del sistema economico, una temperatura più alta del normale per un periodo appunto prolungato di tempo. Il fenomeno viene tenuto sotto controllo e qualche grado di febbre non preoccupa nessuno finché non raggiunge però una temperatura troppo elevata e lì rimane per un po’. Allo stesso modo, l’inflazione “a doppia cifra”, come si dice quando arriva a valori sopra il 10%, diventa un fenomeno molto preoccupante per l’intero sistema
economico.
Si dice che l’inflazione porta alla diminuzione del potere d’acquisto perché, con la stessa quantità di denaro, ci si può permettere un quantitativo di beni inferiore. In sostanza crea una discrasia tra valore nominale e valore reale delle variabili economiche, riducendo il valore reale delle entrate di ciascuno (stipendio, pensione, investimenti immobiliari, investimenti finanziari) e, di fatto, svalutando la moneta. Se lo scorso anno con 100 euro era possibile comprare uno specchio da appendere in casa, quest’anno saranno necessari 107,1 euro per acquistare lo stesso specchio, 7,1 euro in più rispetto allo scorso anno. L’inflazione annua di maggio 2023 su mobili, articoli e servizi per la casa si è infatti attestata al 7,1% mentre quella media totale al 7,6%.
Ma come si calcola l’inflazione?
Come si calcola l’inflazione
Per misurare l’inflazione si confronta la variazione dei prezzi anno su anno. Una delle motivazioni per cui nel 2022 il tasso di inflazione è cresciuto molto deriva anche da questo “effetto base”, cioè i prezzi in corso venivano confrontati con i prezzi in corso nei due anni precedenti che, a causa della pandemia, erano scesi molto.
La variazione dei prezzi anno su anno si calcola prendendo come punto di riferimento un paniere di beni (generi di uso quotidiano e durevoli) e servizi che le persone utilizzano. In Italia questo paniere è stabilito dall’ISTAT. Ad ogni bene e servizio viene attribuito un peso all’interno del paniere, che indica l’importanza di un prodotto o di un servizio in un dato momento e che, dunque, può variare nel tempo.
La composizione del paniere, infatti, viene rivista periodicamente con l’ingresso di nuovi beni e l’uscita di altri che non sono più nei desideri dei consumatori. Per esempio, nel 2022 sono entrati nel paniere il saturimetro, la sedia da computer e i test sierologici, mentre sono usciti i compact disc.
Per calcolare l’inflazione si controlla la variazione dei prezzi dei singoli beni/servizi del paniere, tenendo in considerazione la spesa per ciascuno di questi beni e il prezzo pagato (costo).
In particolare, partendo dal paniere di beni e servizi si calcolano:
- l’indice dei prezzi al consumo (IPC) che misura la variazione dei prezzi dei beni di consumo e servizio (per esempio, cibo e benzina)
- l’indice dei prezzi alla produzione (IPP) che misura la variazione media dei prezzi pagati dalle imprese per le materie prime utilizzate per produrre i beni.
L’ISTAT produce tre diversi indici: l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC); l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) e l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI). L’indice NIC è quello utilizzato per la misura dell’inflazione nazionale e nel 2022 misura la variazione dei prezzi di un paniere di 1.772 prodotti elementari rappresentativi di tutti quelli consumati dalle famiglie.
Calcolare la variazione percentuale anno su anno del tasso d’inflazione è dunque piuttosto semplice: basta sottrarre dall’indice dei prezzi al consumo dell’anno in questione quello relativo all’anno base, dividere tutto per l’indice dei prezzi al consumo dell’anno base e moltiplicare infine il risultato per 100.
Le cause dell’inflazione
Sono tante le cause che possono provocare inflazione, endogene ed esogene al sistema economico di un Paese. Tra quelle endogene annoveriamo la scarsità di un bene primario, come il grano, mentre tra quelle esogene troviamo ad esempio lo scoppio di una guerra. In ogni caso, l’inflazione può nascere da una o più di queste cause:
- uno squilibrio tra domanda e offerta di un prodotto
- la sfiducia verso la moneta di riferimento
- l’aumento dei prezzi delle materie prime
- un evento imprevisto che provoca uno shock economico
Il balzo dell’inflazione nel 2022 è il risultato di una combinazione di conseguenze pandemiche e ha delle cause oggettive:
- la rapida riapertura delle attività economiche post emergenza che ha fatto crescere la domanda più rapidamente dell’offerta;
- l’interruzione della catena di approvvigionamento (supply chain) industriale a livello globale;
- il rialzo dei prezzi delle materie prime, in particolare dei beni energetici (petrolio, gas, elettricità).
A queste cause si è aggiunto il conflitto Russia-Ucraina che ha ulteriormente inasprito i rincari delle materie prime (gas in particolare) e complicato i rapporti economici a livello globale.
Le conseguenze dell’inflazione per le tasche degli italiani
Va da sé che, per far fronte a questa erosione del potere monetario, i consumatori debbano ridurre i consumi o chiedere aumenti salariali ai propri datori di lavoro che, però, arrivano solitamente molto più diluiti durante la vita professionale e, soprattutto, sono di un ammontare non sufficiente a coprire il maggior fabbisogno causato dall’inflazione.
Mentre infatti è possibile adeguare velocemente i listini dei prezzi dei beni, per quanto riguarda i salari il processo è più complesso e, soprattutto, lungo. Dovrebbero essere applicati degli indici per adeguarli al tasso di inflazione e, nella recente storia italiana (1975), abbiamo avuto il meccanismo della scala mobile utilizzato per evitare l’erosione del salario reale: per cercare di dare lo stesso salario reale è stato previsto un meccanismo che consisteva in un adeguamento automatico all’inflazione prevista.
Alla fine però questo strumento è stato eliminato perché l’adattamento del valore nominale faceva sì che la scala mobile diventasse essa stessa causa dell’inflazione: l’aumento che veniva inserito nei contratti di lavoro costituiva una sorta di soglia di inflazione, che alla fine alimentava l’inflazione stessa che si aggiungeva a quella soglia.
Infatti, se gli stipendi crescono perché aumenta la produttività si tratta di una buona notizia e l’inflazione dovrebbe diminuire con il tempo, portando quindi benefici anche ai lavoratori.
Ma se salari e prezzi si rincorrono in una spinta al rialzo, l’effetto è ben diverso: se i lavoratori chiedono uno stipendio più alto per tenere il passo con un aumento del costo della vita, le aziende a loro volta potrebbero alzare i prezzi a causa del costo del lavoro più alto. E così si creerebbe un circolo vizioso che potrebbe far durare a lungo la crescita dell’inflazione, definita dagli economisti “spirale salari-prezzi”, come accaduto appunto nel 1975, in cui il tasso di inflazione in Italia superò il 20% per toccare nel 1977 addirittura il 27%. Solo grazie all’intervento dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che adottò una politica caratterizzata dall’aumento dei tassi di interesse, l’inflazione scese dal 21% nel 1980 al 5% nel 1987.
La deflazione non è la soluzione
Dal punto di vista dei consumatori, la soluzione potrebbe sembrare l’opposto dell’inflazione, la deflazione. Ma, se c’è un tasso di inflazione negativo, o meglio un tasso di deflazione, cioè si riducono i prezzi, si ha un problema molto grave che va a discapito dell’attività produttiva. Significa che l’economia non cresce ed è probabile una recessione.
La deflazione crea infatti delle aspettative tanto quanto l’inflazione: se i consumatori si aspettano che i prezzi diminuiscano tendono a posticipare i consumi, soprattutto dei beni non di uso quotidiano. Quindi si crea una tensione verso l’attesa di prezzi più bassi e la somma di questi comportamenti crea una grave stagnazione per la produzione e per di più, per riuscire a vendere, si continuano a diminuire i prezzi. Si hanno merci invendute, si continuano ad abbassare i prezzi e si crea così una pericolosissima spirale verso una stagnazione dell’attività produttiva.
I fili dell’inflazione in mano alla Banca Centrale Europea
Quindi l’obiettivo delle politiche economiche anti-inflazionistiche non è quello di arrivare alla diminuzione dei prezzi, ma di stabilizzarli intorno al livello ottimale, pari al 2%, identificato come equilibrio tra mercato del lavoro, quello dei beni e mercato monetario nonché indice di stabilità nel medio termine e di una situazione economica in crescita.
L’unica arma efficace rimasta nella lotta all’eccessiva inflazione rimane dunque proprio la politica monetaria restrittiva da parte della Banca Centrale, che ritira moneta per rivalutarla (se la domanda prevale sull’offerta dopo che diminuisce la quantità in circolazione, il prezzo sale) e rialza i tassi per limitare consumi e investimenti a favore dei risparmi, frenando la domanda e di conseguenza riducendo strutturalmente i prezzi dei beni.