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Italia commissariata: nostro bilancio scritto da Merkel e Barroso

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Il contenuto di questo articolo – pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Sembra che Angela Merkel sia tornata dal vertice di Roma venerdì scorso piuttosto delusa. Il piano italiano per contenere i tassi d’interesse sui titoli di Stato conteneva elementi inaccettabili, secondo la delegazione di Berlino. I tedeschi non apprezzano che si cerchi di coinvolgere la Banca centrale europea in qualunque meccanismo di intervento sul mercato, soprattutto se la cabina di regia di eventuali acquisti di bond sovrani viene controllata dai governi.

Sono questi i rifiuti che fanno della cancelliera un oggetto di caricature feroci in molti Paesi europei. Ma tra la sua caricatura e Angela Merkel in carne ed ossa c’è uno scarto, che a volte traspare anche nelle dichiarazioni. Al vertice del G20 a Los Cabos della scorsa settimana, per esempio, Merkel ha sottoscritto un «piano d’azione» che include molto di ciò che di solito non le piace. Lì si parla di «valutare passi concreti» integrando nell’area euro «la supervisione bancaria, la risoluzione e ricapitalizzazione delle banche e l’assicurazione dei depositi».

Dietro il gergo da mandarini delle burocrazie, le implicazioni pratiche sono enormi. Come ha mostrato il crollo di Wall Street nel 2008, per gestire in modo accentrato su scala di un continente i fallimenti degli istituti, ricapitalizzarli o garantire i conti dei risparmiatori servono enormi risorse. L’Europa potrà disporne solo mettendo in comune parte di quelle degli Stati. È una forma di eurobond sotto un altro nome. E c’è di più: al G20 Merkel ha accettato di «promuovere la domanda e la crescita dei Paesi europei in surplus» (cioè la Germania stessa). È esattamente ciò che molti rimproverano ai tedeschi di non voler fare, accumulando risparmi e sottraendo crescita all’Europa.
Quando si guarda a squarci di concessioni del genere, si intuisce cosa sta accadendo in queste ore.

L’area euro vive i giorni estremi di un negoziato in cui il lieto fine non è scontato, al contrario: l’inerzia tende nel senso di una rottura. Il collasso della fiducia fra Paesi spinge alla disgregazione, solo la paura delle conseguenze porta tutti a cercare una risposta. Merkel soprattutto offre un’«unione bancaria», con un’«unione fiscale» e «politica», dunque implicitamente una messa in comune (parziale) del rischio sul debito. Ma in contropartita, poiché la fiducia fra governi è rimasta sotto le macerie di questi anni, la cancelliera chiede meccanismi di controllo centrale su ciò che succede in ogni Paese dell’area euro.

Sui temi vitali delle banche, del debito e del bilancio – tasse, spesa, welfare – i singoli Stati potrebbero fare ben poco contro l’avviso di Bruxelles. Quanto emerso fin qui del rapporto sul tavolo dei leader europei al vertice di questa settimana, ne dà un’idea chiara: una delle ipotesi (indicata ieri dal Financial Times) è che Bruxelles possa emendare la manovra di un Paese che ha un debito o un deficit eccessivi.

Il rapporto sarà presentato ai leader dal presidente della Bce Mario Draghi, da quello del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, e dai loro pari grado della Commissione José Manuel Barroso e dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker. In base alla proposta, non solo la finanziaria di uno Stato dai conti in disordine sarà esaminata in Europa prima ancora di approdare nel parlamento nazionale: sarebbe anche di fatto riscritta a Bruxelles, sotto minaccia di multe se non si adegua. Si tratta un cambio radicale per governi che in fondo si vedono ancora come eredi di democrazie liberali ottocentesche, quando quasi ogni capitale d’Europa era il centro di un impero.

Draghi ieri è andato a Parigi a vedere François Hollande esattamente per questa ragione. Il presidente della Bce vuole verificare di persona quanto il capo dello Stato francese sia davvero disposto ad accettare l’offerta di Merkel. Siamo oltre le dichiarazioni fumose d’intenti, ormai nel pieno dei dettagli e del calendario sulla strada di un’«unione». La Francia può essere un ostacolo perché è l’ultimo dei grandi Stati dell’euro rimasto attaccato alla propria idea di sovranità. A differenza del suo predecessore Nicolas Sarkozy, Hollande ha segnalato che è disposto a rinunciarvi, ma solo se Merkel accetterà una forma di eurobond e anche una vigilanza bancaria pervasiva.

Da Parigi si chiede che il controllo europeo sulle banche nazionali, da affidare alla Bce, non si limiti ai grandi istituti ma includa le Landesbanken tedesche controllate dai politici locali. Da Berlino si chiede invece che, in un’«unione fiscale», sia impossibile mettere in comune parte del debito se un Paese alza l’età della pensione a 67 anni, mentre un altro la abbassa (anche per pochi) a 60.

Sono tutti elementi di negoziato. Merkel ne parlerà con Hollande domani a tu per tu, senza italiani né spagnoli. È una sorta di finalissima per l’euro, che a Draghi interessa da vicino per un motivo molto operativo. La Bce ha le chiavi e la forza di fuoco per permettere al sistema di arrivare intero fino all’«unione» proposta dalla Germania tra qualche anno, superando il rischio di disintegrazione imminente. Ma prima di agire per calmare i mercati, l’Eurotower vuole garanzie che non si crei solo una nuova calma artificiale nella quale di nuovo i vari Paesi perdono disciplina e credibilità o rallentano di fatto le riforme come l’Italia ha già fatto in passato quando la Bce l’ha sostenuta. Draghi vuole che la strada verso l’unione fiscale e bancaria sia precisa, altrimenti non metterà a rischio il bilancio della Bce per salvare di nuovo Roma o Madrid.

È qui che il governo di Mario Monti ha un ruolo, anche se per certi aspetti non potrà che seguire ciò che uscirà dalle conversazioni franco-tedesche. Non che Monti sia tenuto in poco conto, al contrario, ma almeno due fattori ne erodono il peso politico in questa fase. Il primo è che ormai la stabilità finanziaria dell’Italia appare appesa a un filo: esistono seri interrogativi sulla capacità del Tesoro di eseguire tutte le aste di titolo di Stato di questi mesi in condizioni accettabili.

Il secondo fattore che frena il premier riguarda il mondo che ha alle spalle, e in qualche modo deve rappresentare dato che Monti non ha un mandato elettorale proprio. Nelle loro mozioni europee, più o meno vagamente, il Pd e il Pdl si pronunciano a favore delle cessioni di sovranità proposte da Angela Merkel. Ma non è chiaro che ne accettino davvero le conseguenze. Il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, parla già di fare una controriforma del lavoro subito dopo le prossime elezioni; dal Pdl si discute invece di togliere l’Imu e Silvio Berlusconi flirta apertamente con il fronte antieuro, come se l’Italia con una «nuova lira» che va a picco fosse in grado di importare i capitali di cui ha disperatamente bisogno.

Sono tutte ambiguità che non sfuggono ai mercati, né ai leader europei quando ascolteranno gli impegni di Monti a Bruxelles tra tre giorni. Ma tutti sanno che la caduta di un «angelo» da duemila miliardi di euro di debiti come l’Italia un po’ di rumore può farlo. Almeno questo può accelerare i negoziati fra Merkel e Hollande sull’unione. E permettere a Draghi, finalmente, di agire.

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