MILANO (WSI) – Se perdureranno simili condizioni, l’Italia ha ben poche possibilità di arrivare alla fine del 2016 mantenendo l’attuale connotazione, non solo in termini economici, ma anche a livello politico/istituzionale.
Come abbiamo avuto modo di affermare più volte in questi pixel, l’Italia è caduta in uno stallo che si protrae ormai da diversi anni, e sembra che stia percorrendo un sentiero molto pericoloso, nel quale, con ogni probabilità, nella migliore delle ipotesi, si troverà ad alternare periodi di recessione con periodi di bassa crescita, in un percorso distruttivo fortemente allarmante.
Per il momento, la componente export ha offerto un significativo sostegno alla “tenuta” del PIL. Più o meno tutte le più grandi economie occidentali, dopo il periodo di burrasca successivo alla scoppio della bolla dei mutui subprime e al fallimento della banca americana Lehman Brothers, seppur con molte difficoltà e con altrettanti elementi di fragilità, hanno conosciuto una ripresa dell’attività economica che, in un certo qual modo, ha contribuito a sostenere l’export italiano, che a sua volta ha dato e continua a dare un ottimo contributo all’attività economica italiana, compensando in parte il crollo della domanda interna dell’Italiana.
E’ evidente che queste economie si trovino in una fase di ciclo economico molto più avanzata rispetto all’economia italiana che sta ancora combattendo con la crisi che si protrae dal 2008. In alcune di queste aree, stanno già incubando i prodromi per una prossima crisi.
Non possiamo dire quando scoppierà: se tra sei mesi, un anno, oppure due. Ma è certo che scoppierà,e quando avverrà, è chiaro che si assisterà ad una contrazione del commercio internazionale che aggredirà anche le dinamiche della componente export dell’Italia, che a quel punto si troverà ancora in condizioni di estrema fragilità e, in assenza di una domanda interna sostenuta -tale da contribuire ad arginare la contrazione delle esportazioni- ne verrà travolta pagandone il prezzo più alto.
Non sappiamo con precisione quanto sia profondo e duraturo il rallentamento che si sta verificando in altre economie, anche se molti indicatori lasciano supporre che si sta assistendo ad una decelerazione tutt’altro che lieve. La caduta del prezzo del petrolio e, più in generale, quella delle materie prime, confermerebbero questa ipotesi, che potrebbe anche essere aggravata da fattori di natura geopolitica.
D’altra parte, negli USA, i dati sull’occupazione (e non solo) lasciano aperti molti dubbi sulla vivacità della ripresa americana. Mentre gli ultimi indicatori sulla crescita della Cina, ai livelli più bassi dal 2009, confermano lo scenario di un rallentamento dei ritmi di espansione.
In Europa, la recente caduta dell’indice della produzione industriale tedesca, unitamente agli altri dati che giungono da altre economie, lasciano intendere che il deterioramento del ritmo di crescita è ancora più marcato che in altre economie. Indubbiamente, il vecchio continente, oltre a patire il disagio sociale ed il significativo deterioramento delle condizioni economiche per via delle politiche di austerità comandate per lo più dal fronte tedesco, sta pagando anche il prezzo delle sanzioni commerciali imposte alla Russia.
Quindi, se il quadro congiunturale dovesse confermarsi in deterioramento, questo potrebbe tradursi in un impatto più significativo in quelle economie più fragili che incorporano maggiori elementi di vulnerabilità ai rischi provenienti dall’esterno. L’Italia, in un simile contesto, è il gigante che barcolla in mezzo a tanti cristalli.
Ormai, con molti paesi in uno stato di conclamata deflazione -che rende ancor più arduo il percorso verso una maggiore sostenibilità dei debiti pubblici- e con sistemi bancari fortemente provati da molti anni di crisi che hanno determinato delle forti erosioni di capitale, a mio avviso, la Banca Centrale Europea ha a disposizione ancora pochissime pallottole di argento idonee a centrare il bersaglio.
Quanto appena affermato è tanto più vero se si considera che, stando a quanto riportato dalla stampa specializzata, in seno al Consiglio Direttivo della Bce ingombrerebbero anche significativi elementi di divergenza sulla politica monetaria espansiva adottata dalla Bce. Le tensioni della scorsa settimana sui mercati, in buona sostanza, hanno trovato terreno fertile in quadro come quello appena descritto.
In Spagna, la scorsa settimana, non sono riusciti a collocare interamente il nuovo titolo decennale (3,2 mld assegnati, contro i 3,5 offerti), nonostante rendimenti in forte rialzo. A mio avviso, questo, costituisce un pessimo segnale che giunge dai mercati, anche in ottica futura; mentre, in Italia, lo spread è salito oltre ai 200 punti, per poi ripiegare in area 170/180. Un eventuale caduta del prezzo dei titoli di stato rischierebbe di portare a fondo le banche più fragili, magari maggiormente esposte nei confronti del debito sovrano italiano.
Qualche giorno fa, l’agenzia di rating Fitch ha affermato che le banche greche hanno bisogno di nuovi capitali per via delle sofferenze che pesano sui rispettivi bilanci. Tanto per vostra opportuna informazione, va detto le banche greche sono schiacciate da una mole di sofferenza che pesano circa il 50% del Pil. Un’enormità, insomma.
A complicare la situazione, sul fronte greco,c’è anche lo stallo delle trattative con la Troika per la fuoriuscita della Grecia dal piano di aiuti. C’è da dire anche che il sistema bancario di altri paesi, colpiti pesantemente dalla crisi, sono in una condizioni di fragilità che rendono queste economie ancor più vulnerabili ad eventuali shock, sia esterni che interni.
Come dicevamo, i dati macro segnalato un deterioramento delle aspettative di crescita che si rifletterà, non tanto sugli utili aziendali del 2014, ma su quelli del 2015, le cui aspettative di crescita – almeno in parte- hanno fatto da traino alla performance positiva del mercati fino a qualche mese fa. Quindi, se i dati economici dovessero confermare l’ipotesi di un forte rallentamento congiunturale, sarebbe logico attendersi che i mercati continuino il ritracciamento fino a livelli che esprimano multipli più aderenti alle reali possibilità di produrre utili da parte delle imprese.
Molti autorevoli commentatori affermano che l’Italia, per uscire dalla crisi, avrebbe bisogno di profonde riforme. Cosa sicuramente vera, ma rimane comunque il fatto che il quadro politico istituzionale non lascia molte speranze circa la possibilità che queste possano esser fatte in tempi ragionevolmente brevi e comunque in sintonia con quelli richiesti dalla gravità della crisi che ha colpito l’Italia, ma anche molti altri paesi.
Ci sarebbe, poi, da considerare anche l’impatto che queste riforme potrebbero avere sulla capacità dell’Italia di poter risalire la china del precipizio in cui è caduta, posto il fatto che, in un contesto economico-finanziario globalizzato come quello attuale, insistono numerosi fattori di rischio esterno che potrebbero gravare (stanno gravando) sulla strada delle riforme, che comunque presuppongono anche la necessità di essere finanziate con ingenti risorse, che non ci sono. In tal senso, trovare una via di sbocco appare cosa assai ardua.
Molto di quanto accadrà nei prossimi giorni o nelle prossime settimane, dipenderà anche dalla capacità della Bce di persuadere e tranquillizzare i mercati, andando oltre agli acquisti di Covered Bonds (iniziati ieri) e degli ABS annunciati già da settembre.
A proposito di un possibile QE sui titoli di stato europei, resto convinto che sono abbastanza remote le possibilità che si possa giungere a questa soluzione. In primis, perché significherebbe modificare profondamente tutta la policy della Banca Centrale Europea e della costituzione stessa dell’Unione Monetaria. In secondo luogo, non credo che un eventuale QE abbia effetti significativi in termini di soluzione delle divergenze strutturali tra le diverse aree economiche dell’eurozona. Anzi, il rischio è proprio quello che tali asimmetrie vengano amplificate per via di una politica monetaria comune ancor più espansiva, in aree che necessiterebbero di differenti interventi monetari.
Il Re è nudo, o quasi.
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