Dal 1990 ad oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui gli stipendi medi lordi annue sono diminuiti registrando una flessione del 2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il primo Paese in classifica e al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. Questo il dato che emerge dal 55esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese nel 2022, un documento che interpreta i più significativi fenomeni socio-economici del Paese nella fase di transizione che stiamo attraversando.
Gli effetti del Covid su stipendi e occupazione in Italia
Sul fronte lavoro in Italia oltre agli stipendi, è progressivamente calata anche la produttività oraria. L’emergenza sanitaria ha avviato un nuovo ciclo dell’occupazione. Il 36,4% degli italiani ritiene che la crisi si sia tradotta in una maggiore precarietà (tra le donne la percentuale sale al 42,3%). Il secondo effetto è l’esperienza del lavoro da casa e la possibilità di conciliare le esigenze personali con quelle professionali: lo pensa il 30,2% degli italiani (e il 32,4% delle donne).
Cresce l’aspettativa nel futuro, soprattutto per il 27,8% della popolazione che considera le risorse europee e il Pnrr elementi in grado di garantire occupazione e sicurezza economica per i lavoratori e le famiglie.
In questo contesto, le opinioni degli italiani convergono sull’utilità dello smart working: il 53% si dice parzialmente d’accordo e il 23,9% d’accordo sul fatto che la sua adozione possa aumentare la produttività aziendale. Il 49,6% vede in questo passaggio uno stimolo a profondere un maggiore impegno nel proprio lavoro, il 30,1% dei lavoratori dichiara che si trova già, di fatto, in questo tipo di situazione, e solo il 20,3% lo considera del tutto ininfluente rispetto al proprio impegno.
Bassi tassi di occupazione, alti tassi di disoccupazione (soprattutto dei giovani) e ampie sacche di inattività (soprattutto femminile): sono le caratteristiche di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato. Per il 30,2% degli italiani al primo posto tra i fattori che frenano l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro (Stato compreso) offrono in cambio della prestazione lavorativa anche nei confronti di chi dispone di competenze e capacità adeguate. Al secondo posto, per il 29,9% c’è la persistenza di condizioni inadeguate per avviare un’attività in proprio, a partire dal peso dei troppi adempimenti burocratici, fino al carico fiscale che grava sull’attività d’impresa.
Infine, rivela il rapporto del Censis, le donne sono le più penalizzate sul luogo di lavoro. Prendendo in esame le retribuzioni degli oltre 15 milioni di lavoratori pubblici presenti negli archivi Inps, il dato medio complessivo riferito alla giornata retribuita si attesta a 93 euro. Una donna percepisce una retribuzione inferiore di 28 euro se confrontata con quella di un uomo. La retribuzione per una donna è inferiore del 18% rispetto alla media, mentre quella di un uomo è del 12% superiore. In base all’età dei lavoratori emerge una differenza di 45 euro tra un under 30 anni e un over 54.
La penalizzazione dei giovani è di 30 punti percentuali rispetto alla media e di 48 punti rispetto ai lavoratori con più di 54 anni. Ampia è anche la distanza tra la paga giornaliera di chi ha un contratto a tempo indeterminato rispetto al tempo determinato e fra full time e part time. La giornata lavorativa del tempo indeterminato vale 97 euro contro i 65 del lavoro a termine, la retribuzione giornaliera del tempo pieno vale più di due volte quella del tempo parziale.
Gli effetti della pandemia sui consumi
Guardando agli effetti della pandemia sull’economia delle famiglie italiane, i consumi sono in ripresa a partire dal secondo trimestre del 2021. Tuttavia, la spesa totale per consumi oggi è ancora di 8,4 punti percentuali al di sotto dei valori del 2019. Nei servizi, dove il crollo legato alla crisi è stato più accentuato, alla fine di giugno il recupero rispetto al 2019 era incompleto per ben 14,1 punti percentuali.
È prevedibile dice il Rapporto del Censis che il recupero proseguirà nei prossimi mesi, ma è difficile al momento immaginarne la forza. Negli anni pre-Covid la percentuale di famiglie ottimiste sul loro futuro è sempre stata molto superiore rispetto alla percentuale dei nuclei ottimisti sul destino del Paese. Nel 2019 i primi erano il 42,2% e i secondi il 21,5%. Nel 2021 i due dati viaggiano appaiati, rispettivamente al 37,8% e al 35,6%. Le prospettive personali e nazionali si congiungono in quanto dipendono dalla campagna vaccinale e dal successo del Pnrr.
In merito al peso delle spese energetiche per le famiglie, se ne rivela una certa consistenza. Nel 2018 le famiglie italiane che si trovano al di sotto della soglia di povertà impiegavano mediamente il 17,8% del proprio stipendio per il pagamento delle bollette e delle altre spese di casa. Questa quota scende a meno della metà (8,1%) per le famiglie al di sopra della soglia di povertà. All’aumentare del reddito, diminuisce significativamente il peso della casa sul reddito familiare e sono proprio i nuclei con maggiori fragilità a subire il contraccolpo peggiore di un aumento dei prezzi dell’energia.